Sono i lavoratori della scuola i dipendenti dello Stato più numerosi e con gli stipendi più bassi. Oltreché i più vecchi d’età, con oltre 52 anni di media. A certificarlo è la ragioneria dello Stato, nel suo conto annuale, confermando i numeri di uno scandalo perpetrato nel tempo e reiterato da tutti i governi succedutisi durante la Seconda Repubblica, compreso quello attuale, determinato a ridurre ulteriormente la spesa pubblica per l’istruzione, come conferma la legge di bilancio 2019.

Nel 2017, anno della rilevazione, i dipendenti della scuola, insegnanti e personale Ata, hanno percepito 28.440 euro lordi pro capite di retribuzione. Ultimi in graduatoria e fortemente staccati dai primi della classe, i magistrati, con 137.294 euro. Al secondo posto i prefetti (94.293 euro), al terzo gli impiegati e i dirigenti delle autorità indipendenti (91.259 euro). Seguono i diplomatici (87.121 euro) e il personale degli istituti penitenziari (81.817 euro). A chi è occupato nella Presidenza del consiglio dei ministri vanno in media 64.611 euro l’anno, il doppio dei colleghi degli altri ministeri (30.140 euro). Poco meglio dei lavoratori del comparto scuola se la passano i dipendenti di Regioni a statuto ordinario e autonomie locali, con 28.632 euro annui. Arrivano a 35.759 quelli delle Regioni a statuto speciale. Tutte le altre categorie sono sopra i 30mila euro pro capite lordi annui. Per i vigili del fuoco, eroi amati e invocati da tutti nel momento del pericolo, appena 32.577 euro, mentre superano di poco i 40mila agenti dei corpi di polizia e militari. Impiego inglorioso, al pari dello stipendio pro capite, quello di chi è alle dipendenze delle agenzie fiscali: 37.444 euro. Mentre a chi svolge le proprie mansioni in seno al Servizio sanitario nazionale vanno 38.629 euro.

La discriminazione nei confronti dei lavoratori della scuola si percepisce maggiormente se si pensa che nell’ambito dello stesso ministero, il Miur, i dipendenti delle Università guadagnano mediamente 43.463 euro l’anno. Quasi 42mila euro chi opera negli enti di ricerca.

Significativo un altro parametro: la scuola, a fronte del 26,42% del costo complessivo del lavoro pubblico, occupa più di un terzo di tutti i dipendenti dello Stato, mentre la Sanità, che spende il 24,19% delle risorse destinate al personale, occupa il 20% degli addetti. In termini assoluti, fra occupati a tempo indeterminato, determinato e le varie forme di contratti flessibili, la scuola occupa circa 564mila persone in più del comparto sanità.

Determinante, secondo i sindacati della scuola, il blocco dei contratti, tra il 2011 e il 2018, capace di produrre una perdita di quasi 1.900 euro a lavoratore. Un danno che, durante la scorsa legislatura, il Governo ha pensato di riparare con soli 85 euro medi di aumento, tra i 37 e i 52 euro netti mensili, insieme alla corresponsione di arretrati di poche centinaia di euro.

“Se si escludono i primi due anni in cui sono presenti gli effetti degli ultimi rinnovi contrattuali prima del blocco introdotto dal dl 78/2010 – ammette la ragioneria dello Stato – è evidente la generalizzata riduzione del costo del lavoro”.

Le stime ufficiali dicono ancora che i lavoratori della scuola si contraddistinguono per l’età media più alta di tutta la pubblica amministrazione; 52,3 anni nel 2018. Con le insegnanti risultate addirittura tra le più anziane in Europa.

Sull’argomento, interviene l’Anief: “Sugli aumenti di stipendio insoddisfacenti non avevamo dubbi – commenta il presidente, Marcello Pacifico – perché gli 85 euro di aumento medio lordo, con un incremento a regime del 4,85%, erano molto al di sotto dell’inflazione accumulata negli ultimi anni di blocco contrattuale, considerando che pure dopo gli incrementi il costo della vita continuava comunque a sovrastare i salari dei dipendenti della pubblica amministrazione, alla luce degli 8 punti percentuali in più di costo della vita registrati tra il 2007 e il 2015. In questa situazione, è chiaro che l’aumento di 8 euro lordi, a partire dal prossimo primo aprile, con un ritocco previsto da luglio 2019, non cambierà la sostanza delle cose”.

Eloquenti alcuni paragoni con altri Paesi dell’Unione europea. In Germania, riferisce sempre il sindacato, un maestro della primaria appena assunto percepisce 46.984 euro di media, per poi incassare anche più di 62mila euro prima di andare in pensione, mentre in Italia nessun docente supererà mai 34mila euro. Alle scuole medie, il collega tedesco sfiora i 53mila euro all’inizio e i 70mila euro a fine carriera. Per non parlare del Lussemburgo, dove lo stipendio di un docente è quasi cinque volte più alto, ben al di sopra dei 100mila euro l’anno. Cifre che in Italia percepiscono, almeno nella pubblica amministrazione, solo i magistrati.

Preoccupano, secondo Anief, pure i dati sull’età media sempre crescente tra chi lavora a scuola. Pacifico invita il Governo “a collocare l’insegnamento tra le professioni usuranti, in modo da farlo rientrare nella pensione anticipata dell’Ape Social, la quale non implica le ingiuste decurtazioni applicate invece con quota 100. Non ci stancheremo mai di ricordare che gli altri Paesi europei permettono ai loro docenti di lasciare ben prima dei 60 anni di età e anche dopo 25-26 anni di servizio, senza intaccare l’assegno di pensione. Perché l’insegnamento logora e comporta, se reiterato nel tempo, un’insorgenza maggiore di patologie e malattie invalidanti: situazioni che quasi sempre risultano come figlie di quel burnout che lo Stato italiano – conclude il presidente Anief – continua a fare finta che non esista”.(L’eco del Sud)

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