L’aumento di tre mesi per l’accesso alla pensione nel 2028, previsto sulla base della crescita dell’aspettativa di vita, non basterà per lasciare il lavoro per chi ha una retribuzione inferiore al minimale contributivo, pari a 12.551 euro nel 2025.
Per questi lavoratori impegnati con contratti part time, contratti a termine e bassi salari potrebbero essere necessari dal 2028 fino a cinque mesi di lavoro in più invece che tre.
La Cgil in una ricerca sulle ricadute delle norme introdotte con la legge di Bilancio (sulla base dell’aumento automatico dei requisiti per la pensione previsto a fronte dell’aspettativa di vita) sul sistema previdenziale evidenzia le difficoltà per chi fa i conti con un contratto part time spiegando che la situazione è peggiorata con l’impennata dell’inflazione.
Sull’aumento dei requisii per l’accesso alla pensione è tornato anche il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon con una intervista a La Stampa spiegando che se non si dovesse riuscire quest’anno a sterilizzare l’aumento fissato a partire dal 2027 lo si farà l’anno prossimo.
Secondo la Cgil potrebbero essere coinvolti in un ulteriore aumento dei requisiti circa il 29% dei lavoratori con almeno una giornata di lavoro retribuito nel settore privato nel 2024, ovvero oltre 5,1 milioni di persone.
“Si tratta – scrive il sindacato – soprattutto di donne e giovani, proprio coloro che subiranno le conseguenze peggiori dell’aumento automatico dei requisiti legato all’aspettativa di vita”.
“La nostra analisi, basata sui dati dell’Osservatorio Inps sulle retribuzioni — spiega Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil nazionale — dimostra che dal 2028 chi ha retribuzioni basse dovrà lavorare settimane e mesi in più solo per “recuperare” l’incremento di tre mesi deciso da questo Esecutivo (1 mese dal 2027, tre a partire dal 2028, ndr).
Con 5.000 euro annui di retribuzione, ad esempio, per ottenere i tre mesi aggiuntivi previsti serviranno quasi due mesi di lavoro in più; nel 2040, per compensare l’ulteriore incremento, ne serviranno oltre sette; nel 2050 si arriverà a un anno e un mese in più di lavoro, perché ogni 20 mesi lavorati ne varranno solo 12 ai fini della pensione”.
La simulazione, spiega la Cgil, “evidenzia effetti rilevanti anche su redditi leggermente superiori “ma comunque inferiori a 12.551 euro. “Per chi percepisce 8.000 euro l’anno — prosegue Cigna — i tre mesi in più del 2028 significano circa un mese e una settimana aggiuntivi di lavoro; nel 2029, con l’aumento a cinque mesi, serviranno almeno altri due mesi; nel 2040, per recuperare i 13 mesi stimati di aumento dei requisiti, saranno necessari quasi cinque mesi di lavoro ulteriore; e nel 2050, con 23 mesi in più previsti, si dovranno aggiungere oltre 8 mesi di lavoro ai 13 mesi già stimati”.
La Cgil segnala che la situazione peggiora a fronte della caduta del potere d’acquisto dei salari determinata dall’inflazione registrata dopo la pandemia non ancora recuperata con gli aumenti contrattuali.
Il minimale contributivo, spiega la ricerca, è cresciuto del 14,9% tra il 2022 e il 2025 (e salirà secondo le stime del 16,5% tra il 2022 e il 2026), molto più dei salari. Era infatti a 10.928 euro nel 2022. “Questo comporta, spiega Cigna, che anche chi lavora tutto l’anno perde settimane di contributi utili. A retribuzione invariata, dal 2023 al 2026 un lavoratore può perdere 22 settimane, oltre 5 mesi e mezzo di pensione futura cancellati pur avendo lavorato ogni singolo giorno”.
Il dato riguarda prevalentemente chi è in part time e lavora quindi con un orario ridotto su base giornaliera o su base mensile come ad esempio i lavoratori delle mense scolastiche.
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