Il fenomeno degli Hikikomori, è un fenomeno moderno ed emergente delle società altamente tecnologiche, consiste nella decisione di ritirarsi, auto-recludersi nella propria abitazione o nella propria stanza, interrompendo le interazioni in presenza con l’esterno.

Gli hikikomori si isolano per i motivi più disparati: perché si sentono in conflitto con la società, perché non si sentono alla sua altezza, per paura del giudizio altrui, per superiorità. ”‘Stanarli’ non è facile e ancora più difficile è farlo nel bel mezzo della pandemia perché gli hikikomori sono rinchiusi in casa esattamente come tutti noi. Il rischio è che il fenomeno ne esca camuffato e che questa emergenza passi inosservata. Prova ne è il fatto che durante il primo lockdown le richieste d’aiuto da parte dei genitori siano calate di circa l′80%. Solitamente ne riceviamo almeno dieci al giorno da tutta Italia”.

Di cosa si tratta?

Il fenomeno è sconosciuto, quasi “invisibile” come i soggetti che ne soffrono: si chiama “Hikikomori”, in giapponese significa “stare in disparte” e colpisce più adolescenti (anche italiani) di quanto si possa immaginare. Non li vediamo perché la loro vita si svolge interamente in una stanza: la loro camera da letto. Si rifiutano di uscire, di vedere gente e di avere rapporti sociali. In quella stanza leggono, disegnano, dormono, giocano con i videogiochi e navigano su Internet. Ma soprattutto proteggono loro stessi dal giudizio del mondo esterno. Chi attribuisce la colpa del disagio alle nuove tecnologie sbaglia di grosso. Le cause sono molteplici e il fenomeno è sorto prima dell’avvento del pc. Di noto c’è che l’isolamento può durare alcuni mesi o anni, ma una cosa, sostengono gli esperti, è certa: non si risolve mai spontaneamente. Cos’è, come riconoscerlo e curarlo?  Marco Crepaldi, presidente di Hikikomori Italia, “un progetto di sensibilizzazione e informazione corretta sul fenomeno che i media – ma anche i medici – tendono a confondere con la depressione o con la dipendenza da Internet dichiara : ‘L’hikikomori è un meccanismo di difesa messo in atto come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale tipiche delle società capitalistiche economicamente più sviluppate. L’hikikomori è il frutto  di una società che esercita sui ragazzi una serie di pressioni che vanno dai buoni voti scolastici, alla realizzazione personale, alla bellezza fino alla moda”.

Ragazzi e ragazze si trovano così a dover colmare virtualmente il gap che si viene a creare tra la realtà e le aspettative di genitori, insegnanti e coetanei. Quando questo gap diventa troppo grande si sperimentano sentimenti di impotenza, perdita di controllo e di fallimento. A loro volta questi sentimenti negativi possono portare ad un atteggiamento di rifiuto verso quelle che sono le fonti di tali aspettative sociali. E siccome queste fonti sono rappresentate, come detto, dai genitori, dagli insegnanti, dai coetanei e, più in generale dalla società, il ragazzo tenderà spontaneamente ad allontanarsene e a rifugiarsi nella propria camera dove è immune al sentimento della vergogna.

Cosa NON è l’hikikomori

Sempre più spesso l’hikikomori viene scambiato con patologie con cui non ha nulla a che fare, generando una grande confusione intorno al fenomeno. Ecco cosa non è l’hikikomori.

Non è dipendenza da internet. Il fenomeno è scoppiato in Giappone ben prima della diffusione del personal computer. Questo significa che prima che esistesse internet l’isolamento degli hikikomori era totale. Da questo punto di vista l’utilizzo del web può addirittura essere interpretato come un fattore positivo in quanto consente ai ragazzi di continuare a coltivare delle relazioni sociali che altrimenti non avrebbero.

Non è depressione: Secondo molti l’isolamento degli hikikomori sarebbe solamente la conseguenza di uno stato depressivo. “Si tratta di una falsa credenza, nonché di una banale semplificazione”, spiega Marco Crepaldi. Innanzitutto, l’hikikomori non è una malattia (al contrario della depressione). È stata infatti dimostrata l’esistenza di un “hikikomori primario”, ossia un hikikomori che si sviluppa prima e a prescindere da altre patologie; uno stato di ritiro che non deriva da nessun disturbo mentale preesistente”.

Non è una fobia sociale: Così come l’isolamento dell’hikikomori non è causato dalla depressione, esso non nemmeno riconducibile semplicemente a un disturbo d’ansia, come, ad esempio, la fobia sociale o l’agorafobia (ovvero la paura degli spazi aperti, dei luoghi pubblici). “È innegabile che dopo un lungo periodo di isolamento una persona possa sviluppare una dipendenza dal computer, possa sperimentare un calo dell’umore o avere paura di uscire di casa, ma questo può portarci ad affermare che dipendenza da internet, depressione e fobie sociali siano la causa dell’hikikomori?  La risposta è “no””.

È possibile aiutare qualcuno che non vuole essere aiutato?

La risposta è sì. Sbagliato però sottoporre i ragazzi a una terapia tradizionale – ammesso che i diretti interessati vogliano farlo -.  “Oggi ci sono pochi terapeuti ben formati sul problema. I medici non conoscono il fenomeno, non sanno da dove iniziare e tendono a inquadrarlo nelle categorie classiche: fobia sociale, disturbo della personalità, depressione…”, spiega Crepaldi. “L’approccio giusto, invece, è diverso e richiede il coinvolgimento dei entrambi i genitori. Spesso accade che solo la mamma si renda disponibile. La buona riuscita della terapia dipende anche dal papà”. Quanto ai farmaci nella fase inziale sono inutili. “La terapia farmacologica può rivelarsi utile nella fase acuta, quando il ragazzo dopo anni di isolamento, inizia a manifestare anche sindrome paranoide”.  Per Crepaldi, inoltre, è fondamentale che i genitori tengano sempre in mente questi tre punti:

Non lo sto facendo per me: Quando vogliamo a tutti i costi aiutare una persona dobbiamo sempre ricordarci che lo stiamo facendo per il suo bene, non per il nostro. Quindi l’obiettivo non deve essere quello di spingere nostro figlio a vivere la vita che noi riteniamo essere più giusta per lui, ma semplicemente aiutarlo a trovare la sua strada, la vita che speriamo possa renderlo più sereno (anche se non corrisponde al nostro modello di vita ideale);

Posso aiutarlo fino a un certo punto: L’impatto che le nostre parole e le nostre azioni possono avere sulla vita di un’altra persona non può mai superare determinati limiti. È doveroso provare ad aiutare una persona che riteniamo essere in pericolo, ma allo stesso tempo, non possiamo agire per conto di quella persona e la nostra responsabilità sulle sue scelte è, giustamente, ridotta. Ognuno è padrone della propria vita, anche nostro figlio.

Devo continuare a vivere la mia vita: Quando si ha un figlio in difficoltà si farebbe di tutto pur di aiutarlo, anche sacrificare il proprio benessere personale. Eppure, un atteggiamento di abnegazione rischia di provocare l’effetto opposto in un hikikomori, il quale, sentendo su di sé maggiore pressione da parte dei genitori, potrebbe reagire isolandosi ancor più gravemente. Per questo motivo bisogna sforzarsi di continuare a condurre una vita normale senza farsi prendere dalla frenesia e dal panico. La parola d’ordine è sempre “pazienza”.

Ti è piaciuto questo articolo? Condividilo su:
Stampa questa notizia