Salute, questione di cultura più che di soldi, tant’è che i paesi che più investono in sanità (come gli U.S.A.), non sempre hanno lo stato di salute migliore della loro popolazione.

E questo implica una netta divisione tra cronicità della malattia e gestione della patologia acuta, che richiedono interventi completamente diversi nel territorio, facendo capo, da un lato alla medicina integrata e dall’altro agli ospedali in grado di gestire le emergenze.

Non servono tanti ospedali quindi, serve piuttosto una rete territoriale in grado di gestire cronicità delle malattie e organizzazione della prevenzione.

Da troppo tempo il dibattito sul sistema sanitario italiano è fermo sui suoi costi, sulla sua sostenibilità. E’ rimasto sullo sfondo il grande tema: come promuovere la salute degli italiani. Quest’ultima dipende solo per il 10-15% dall’assetto dei servizi (e quindi da1 113 miliardi del Fondo Sanitario Nazionale), per il 20-30% dalla genetica, per il 20-30% dalle condizioni ambientali, per il 40-50% dai fattori socio economici e dallo stile di vita delle persone.  Le risorse investite nel sistema sanitario, pertanto, sono importanti ma senza una visione di fondo rischiano di non essere efficaci.

 I Paesi che investono di più in sanità non sempre hanno lo stato migliore di salute della popolazione.

Gli U.S.A. ad esempio spendono più di tutti al mondo (il 16% del Pil) per una medicina iperspecialistica ma occupano l’84esimo posto al mondo per stato di salute della popolazione con una impennata delle malattie cronico degenerative ben superiore agli altri paesi, con un tasso di obesità tra i più alti al mondo, con un tasso di mortalità infantile non certamente consono ad un Paese ad alto sviluppo economico.

L’Italia, con le sue croniche differenziazioni tra area ed area del paese, è stata indicata dal Bloomberg Index e dalla stessa Ocse (2015) come uno dei paesi più sani al mondo. E questo nonostante stia precipitando nella classifica delle risorse pubbliche e private destinate alla sanità. Ammontano a poco più dell’8% del Pil di cui 1,9% dalle famiglie (35 miliardi di euro) contro una media europea attestata al 9%.

Il fattore decisivo per la salute è come una comunità si organizza e garantisce una buona qualità di vita. Avere un buon reddito, una scolarità ed un livello culturale medio alti, un lavoro ed un reddito sicuri, un ambiente libero da agenti inquinanti, potersi muovere senza paura nella propria città, mangiare in modo intelligente, avere buone relazioni amicali e familiari, partecipare alla vita sociale, praticare attività fisica, sono tutti fattori che determinano un buono stato di salute ed incidono sulla durata della vita.

Sono quelle ‘infrastrutture’ sociali necessarie per stare bene e che danno origine ad un assetto dei servizi sociali coerente. Senza un buon sociale non esiste una buona sanità.

La salute è un fatto culturale: il cittadino educato ad uno stile di vita sano, che utilizza correttamente gli screenings preventivi (cervice uterina, colon retto, seno), che non viene irretito nella spirale del consumismo sanitario (più esami, più farmaci non sono necessariamente collegati ad uno stato di salute migliore) ha buone probabilità di godere di uno stato di salute soddisfacente.

In questa visione anche il sistema sanitario deve adeguarsi. Non in una inutile rincorsa all’iperspecializzazione (questa ovviamente ci deve essere ma concentrata in pochi punti di erogazione) all’aumento delle prestazioni (un sistema non si giudica dal numero di visite o di esami) al mantenimento acritico dei piccoli ospedali, spesso pericolosi per la tutela della salute. Nell’immediato è necessario innanzitutto ricostituire gli organici medici ed infermieristici ai livelli del 2014 almeno, dare la gestione ospedaliera al Consiglio dei Sanitari costituito dai primari e dai coordinatori infermieristici più esperti perché sono queste le figure che meglio conoscono i processi, accompagnare i nuovi giovani medici di base per almeno un anno accanto ai medici più esperti. Tre scelte essenziali.

La rete ospedaliera dovrà essere equilibrata nell’offerta, dedicata alla cura dell’acuzie, adeguata tecnologicamente e negli organici e soprattutto ben integrata tra i vari presidi di una Provincia (Vicenza 30 anni fa aveva 14 ospedali per acuti, oggi ne ha 6). E la medicina di base, rinnovata e qualificata, dovrà essere in grado di prendere in carico la persona che non è ‘sommatoria di organi’.

Una medicina generalista che sappia dialogare con quella specialistica in modo snello. Una medicina che sappia gestire la cronicità, ovvero la vera grande priorità di questa fase storica che stiamo vivendo. Se oggi gran parte della popolazione italiana ha problemi tumorali, dai quali fortunatamente vengono salvate sempre più vite, di diabete, di bronco pneumopatia cronica ostruttiva, di cardiopatia cronica, di non autosufficienza legata al forte invecchiamento, sarà la medicina generalista, svolta in forma associata, a doversene far carico.

Essenziale sarà il ruolo degli infermieri di comunità che nei prossimi anni affiancheranno sempre più i medici generalisti (questi ultimi del resto saranno di meno rispetto ad oggi) con una forte autonomia nel seguire i pazienti cronici stabilizzati.  L’Adi (assistenza domiciliare integrata), sulla quale si dovrà investire ogni anno di più, potrebbe arrivare a prendere in carico almeno l’8% dei pazienti fragili dimessi dall’ospedale. Le Residenze Protette potranno offrire, come presidi socio sanitari del territorio, posti letto diffusi di sollievo socio sanitario e riabilitativo per le dimissioni protette (superando i modelli rigidi degli ospedali di comunità e delle Unità Riabilitative Territoriali) oltre ad altri servizi di supporto alla domiciliarità come accoglienze diurne flessibili, sette giorni su sette fino a 12 ore.

Ma l’assetto dei servizi, influisce solo per il 10-15% sullo stato di salute. E’ sulla qualità della vita che occorre agire ed investire. Forse più che sul Fondo Sanitario Nazionale.

Alberto Leoni

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