È costata cara a un ristorante di Merano la differenza che corre tra Parmigiano Reggiano e Grana Padano. L’uso improprio del marchio del celebre formaggio DOP prodotto tra Parma, Reggio Emilia, Modena e parte delle province di Bologna e Mantova, è valso al ristoratore una sanzione da 4.000 euro. Nel menù si indicava genericamente “parmigiano”, ma nei piatti finiva Grana Padano: un errore tutt’altro che irrilevante per il Consorzio di Tutela del Parmigiano Reggiano, che presidia attivamente l’uso corretto della denominazione e ha effettuato il controllo. L’intenzione, almeno secondo l’Unione Commercio Turismo e Servizi dell’Alto Adige, non era certo quella di ingannare i clienti: si sarebbe trattato di una scelta di semplificazione linguistica, per far comprendere meglio la tipologia del prodotto. Ma la legge non fa sconti. E il disciplinare nemmeno. Il caso, diventato di dominio pubblico grazie a un approfondimento del Corriere dell’Alto Adige, ha riacceso una discussione che da anni coinvolge non solo la ristorazione, ma anche il mondo della comunicazione e dell’informazione culinaria. Anche in noti programmi televisivi, capita che cuochi e concorrenti vengano corretti in diretta per aver usato il termine “parmigiano” come sinonimo generico. Una svista che può costare cara, perché il nome “Parmigiano Reggiano” – così come “Parmigiano” tout court – è un marchio registrato e legalmente riconducibile esclusivamente al prodotto DOP. Chi serve un altro tipo di formaggio stagionato da grattugia, come Grana Padano, Trentingrana o affini, deve specificarlo chiaramente nel menù oppure ripiegare su diciture generiche come “formaggio stagionato” o “formaggio grattugiato”. In caso contrario, scatta la sanzione, che può arrivare fino a 13.000 euro nei casi più gravi. L’episodio di Merano diventa emblema di un tema molto più ampio: la tutela delle eccellenze italiane e dei marchi di qualità. Non si tratta, infatti, di stabilire quale formaggio sia migliore, ma di difendere la specificità di ciascun prodotto e la trasparenza nei confronti del consumatore. «Nel linguaggio comune siamo abituati a usare “parmigiano” come termine generico, ma per legge non è così – spiegano dal Consorzio –. Quel nome identifica un prodotto preciso, frutto di una filiera controllata e di un territorio ben definito. Usarlo impropriamente significa danneggiare un intero sistema». In questo caso, al ristoratore è andata tutto sommato bene: la sanzione comminata è stata contenuta, probabilmente anche in virtù della buona fede dimostrata. Ma l’episodio suona come monito per tutto il settore: nel mondo dell’enogastronomia, le parole contano. E quando si parla di DOP, ogni lettera fa la differenza.

V.R.

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