Oggi è difficile immaginare una cucina italiana senza passata di pomodoro. È la base del sugo per la pasta, della pizza, di moltissimi piatti regionali. Ma la sua storia è molto meno lineare di quanto si pensi. Perché il pomodoro, prima di finire nei piatti, ha attraversato secoli di diffidenza, curiosità e trasformazione culturale.

Originario dell’America Centrale e Meridionale, il pomodoro (dal nahuatl tomatl) fu portato in Europa dai conquistadores spagnoli nel corso del XVI secolo, poco dopo la scoperta del Nuovo Mondo. Ma agli inizi il suo destino sembrava ben lontano dalla cucina: il frutto, di un rosso acceso e dalla forma inconsueta, venne a lungo considerato una pianta ornamentale, coltivata nei giardini nobiliari per la sua bellezza esotica.

Inoltre, il pomodoro appartiene alla famiglia delle Solanacee, la stessa di piante velenose come la belladonna e il tabacco, e questo alimentò per secoli sospetti sulla sua commestibilità. In molte zone d’Europa si pensava fosse tossico, e per decenni fu guardato con diffidenza.

Solo a partire dal XVII secolo, in alcune zone del Sud Italia, soprattutto tra Napoli e il Regno delle Due Sicilie, si comincia a sperimentarne l’uso culinario. Il primo ricettario a menzionarlo è Lo scalco alla moderna di Antonio Latini, pubblicato a Napoli nel 1692. Latini presenta il pomodoro in una ricetta simile a una salsa, anticipando l’uso che ne verrà fatto nei secoli successivi.

Ma è tra Settecento e Ottocento che il pomodoro cambia davvero status, diventando un alimento popolare. Merito della crescita delle città, della diffusione della pasta secca e soprattutto della sua adattabilità: il pomodoro si conservava, si cucinava facilmente e accompagnava ingredienti poveri, rendendoli gustosi.

La passata, come la conosciamo oggi, è il risultato di una lunga evoluzione domestica. Non si conosce un “inventore” preciso: nacque probabilmente come pratica contadina, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia, dove le famiglie, durante l’estate, conservavano il raccolto di pomodori bollendolo e passandolo per eliminare bucce e semi, ottenendo così una salsa densa e rossa da mettere in bottiglia per l’inverno.

Fu però a fine Ottocento che la passata entrò nel mercato. Con l’industrializzazione, alcuni imprenditori — in particolare nel nord e nel centro Italia — iniziarono a inscatolare o imbottigliare il prodotto. A Parma, nel 1899, nacque la Mutti, una delle prime aziende a produrre e vendere passata su scala industriale. Da lì in poi, il pomodoro passò definitivamente dalle cucine rurali agli scaffali dei negozi.

Un simbolo dell’italianità nel mondo

Nel corso del Novecento, la passata di pomodoro si è trasformata da preparazione casalinga a prodotto industriale simbolo del “Made in Italy”. Oggi l’Italia è tra i principali produttori mondiali di pomodoro da conserva, con milioni di tonnellate lavorate ogni anno tra Campania, Puglia, Emilia-Romagna e altre regioni.

Ma nonostante la modernità, molte famiglie italiane continuano a preparare la passata in casa, ogni estate, come gesto di tradizione e identità.

Dalla diffidenza alla dipendenza (culinaria)

Se all’inizio il pomodoro era solo una curiosità botanica, oggi è diventato protagonista indiscusso della cucina mediterranea. La passata rappresenta un perfetto esempio di come una pianta esotica sia stata accolta, adattata, trasformata e infine fatta propria da una cultura fino a diventare parte della sua essenza.

Un paradosso affascinante: il pomodoro, simbolo dell’italianità a tavola, non è nato in Italia. Ma è proprio in Italia che ha trovato il terreno fertile — in senso letterale e culturale — per diventare quello che è oggi.

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