Oggi, lunedì 21 settembre, ricorre l’anniversario dell’uccisione del giudice Rosario Livatino. In quanti conoscono la storia di questo giudice dalla faccia angelica, che si batteva contro la mafia, contro la corruzione e per l‘indipendenza di chi giudica applicando la legge e senza alcuna interferenza.
Era il 21 settembre 1990 ed era mattina quando il giudice Rosario Livatino, che il 3 ottobre avrebbe compiuto 38 anni, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, da Canicattì dove abitava, si stava recando al tribunale di Agrigento. E’ stato avvicinato, bloccato e ucciso da un commando mafioso. In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perchè “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.
Sembra un sacrificio vano quello di Livatino se pensiamo che appena una settimana fa è arrivata la notizia della concessione di un permesso premio a uno dei mandanti condannato all’ergastolo, Giuseppe Montanti. “Una tragica beffarda coincidenza”, ha definito il provvedimento il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio.
L’agguato
Il giudice stava percorrendo i duecento metri del viadotto San Benedetto, a tre chilometri dalla città dei templi, quando una Fiat Uno e una motocicletta di grossa cilindrata lo hanno affiancato costringendolo a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, da Marsala Paolo Borsellino.
Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, stessa sorte toccò al presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e al figlio Stefano, trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo mentre improvvisamente, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo. Nella sua attività Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la ‘Tangentopoli sicilianà e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni.
‘Il giudice ragazzino’
La storia di Livatino è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro “Il giudice ragazzino”, titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. “Livatino e la sua storia – scrive Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.
Lascia un messaggio morale e professionale importantissimo oltre che attualissimo. “Il giudice – diceva Livatino – oltre che essere, deve anche apparire indipendente. E’ importante che egli offra di se stesso l’immagine non di persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di persona seria, di persona equilibrata, di persona responsabile; e, potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire. Soltanto se il giudice realizza in se stesso queste condizioni, la società può accettare ch’egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha”.
N.B.