Avevano detto che “non era da Eurovision”. Che avrebbe deluso, che non sarebbe stato capito. Come se l’arte dovesse sempre rientrare nei parametri prestabiliti del consenso di massa. Come se l’Eurovision, con il suo caleidoscopio di glitter e fuochi d’artificio, non potesse accogliere anche un’anomalia poetica. E invece. Lucio Corsi, al suo debutto all’Eurovision Song Contest – per ora fuori gara – ha stupito tutti. Con la grazia sfrontata di chi non cerca l’approvazione, ma la verità. Con una performance tra le più convincenti dell’intera stagione, capace di restituire al pubblico europeo (e non solo) l’essenza pura e indomita di un artista che esiste da quindici anni, ma che l’Italia ha scoperto solo adesso, distratta com’è da modelli sempre uguali a se stessi. Ieri sera c’era tutto. La canzone – e già lo sapevamo. La presenza magnetica. L’estetica che diventa narrazione. Il costume che racconta, l’armonica che sfida le regole (teoricamente vietata), una chitarra che richiama i colori della Palestina. Niente è stato casuale, tutto è stato Corsi. Lucio Corsi. Nella sua forma più autentica, più necessaria, più libera. In un contesto dominato da hit fotocopia e spettacoli concepiti per piacere a tutti e durare il tempo di un ritornello, Lucio ha portato sé stesso. E basta. Un atto di coraggio, ma anche di coerenza. Un cantautore vero nel tempio della plastica pop. Un marziano nell’attuale discografia italiana, e non solo. Forse non vincerà – le logiche dell’Eurovision difficilmente premiano chi non rientra negli schemi. Ma a noi importa poco. Non è lì per questo. Non è questo il punto. Il punto è che Lucio Corsi, ieri, su quel palco, ha dimostrato che si può essere altro. Che si può essere sé stessi, anche quando tutti ti chiedono di essere altro. Che si può scrivere una canzone che parla di identità e di libertà, e cantarla guardando il mondo dritto negli occhi. Non potevamo avere rappresentante più giusto. Più bello. Più libero. Nient’altro che Lucio. E meno male.

Valentina Ruzza

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