Ci sono anniversari che non si contano: si sentono. Cinque anni fa l’Italia non ha perso soltanto un campione. Ha perso un pezzo di sé. Un frammento d’infanzia collettiva, un’estate che sembrava eterna, la voce dei padri che urlavano davanti alla TV, le strade vuote e i cuori pieni. Quel giorno non se ne andò solo Paolo Rossi: si spense una parte dell’Italia felice, quella che ancora credeva nei miracoli. Pablito non era un nome: era un istante della vita. Era la voce rotta di chi aveva smesso di sperare e all’improvviso tornava a crederci. Era quel gol che faceva piangere gli uomini più duri, quella corsa leggera che sembrava sussurrare che anche quando tutto appare perduto, qualcosa di straordinario può ancora accadere. Rossi apparteneva a quel tipo rarissimo di campioni capaci di trasformare un pallone in un riscatto nazionale, in una storia collettiva da tramandare. Per Vicenza, però, Paolo Rossi è stato molto più di un campione del mondo. È stato casa. È stato identità. «Paolo Rossi è il simbolo della vicentinità, una parte della storia della nostra città», ha ricordato il sindaco Giacomo Possamai nel quinto anniversario della sua scomparsa, il 9 dicembre 2020. Un ragazzo gracile arrivato al Vicenza, poi cresciuto nel Lanerossi fino a diventare Pablito, prima nel Mondiale del ’78 e poi nel trionfo del 1982, quando la sua leggenda ha smesso di appartenere soltanto al calcio per diventare patrimonio emotivo di un intero Paese. Vicenza lo ha celebrato con la devozione che si deve ai figli più grandi. Sulla torre Everest vive un murale di 60 metri, tra i più estesi d’Europa. Davanti allo stadio Romeo Menti una statua in bronzo a grandezza naturale accoglie tifosi e visitatori. E, nelle sere d’inverno, l’installazione luminosa di Marco Lodola ridisegna il suo gesto più iconico: le braccia alzate, la postura che sapeva di Mondiale e di Pallone d’Oro. Dino Zoff, capitano di quella Nazionale straordinaria, lo ha ricordato con affetto e precisione tecnica: «Paolo era simpatico, brillante, aperto, al contrario di me, molto timido. Anticipava le mosse dell’avversario, aveva un’intuizione speciale, progettava il gol nel minor tempo possibile». Inevitabile anche il pensiero per Enzo Bearzot, l’uomo che più di tutti ebbe fede in lui: «Ha creduto in Paolo quando nessuno lo faceva. Sapeva che quel Mondiale lo avremmo vinto». La parabola sportiva di Rossi è unica e irripetibile. Nato a Prato nel 1956, esordì come ala destra nella Juventus, ma fu il trasferimento al Lanerossi Vicenza a cambiargli la vita. Mister Fabbri intuì le sue potenzialità da centravanti puro: nel 1976-77 trascinò i biancorossi in Serie A, segnò 24 gol e attirò su di sé lo sguardo del commissario tecnico Bearzot, che lo convocò per il Mondiale del ’78. Poi arrivò lo scandalo scommesse, la squalifica, la caduta. Sembrava tutto finito. In Spagna, nel 1982, Paolo Rossi riscrisse la storia. Dall’ombra esplose nella luce più intensa: tre gol al Brasile, due alla Polonia, uno alla Germania in finale. Capocannoniere del Mondiale, Pallone d’Oro nello stesso anno: un traguardo che nessuno aveva mai centrato prima. Con la Juventus vinse Coppa Campioni, Coppa delle Coppe e Intercontinentale, poi passò al Milan e al Verona. Si ritirò presto, a 31 anni, dopo una carriera segnata dagli infortuni ma mai indebolita nella grandezza. Con 9 gol ai Mondiali è, insieme a Baggio e Vieri, il miglior marcatore italiano nella storia del torneo. È 42° nella classifica dei più grandi calciatori del XX secolo ed è nella Hall of Fame del calcio italiano dal 2016. La sua vita privata fu segnata da due grandi storie d’amore: il matrimonio con Simonetta Rizzato, da cui nacque Alessandro, e poi l’unione con Federica Cappelletti, madre delle sue due figlie. Paolo Rossi si è spento il 9 dicembre 2020, a 64 anni, a causa di un tumore ai polmoni. Cinque anni sono tanti. Eppure sembra ieri. Sembra ancora di vederlo correre, con quel sorriso timido e quel destino brillante cucito addosso come una promessa. Paolo Rossi non è morto: ha solo smesso di segnare qui. Il resto dei suoi gol, ne siamo certi, continua altrove.
Perché alcune leggende non finiscono. Restano. E il loro vuoto non guarisce mai.
V.R.
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