Dello scrivere. L’argomento è naturalmente già stato affrontato, specie negli ultimi tempi, nefandi per l’increscioso dilagare dell’uso (e dell’abuso) dei cosiddetti social. Il grande Umberto Eco sentenziò, a tal proposito: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli.”

Su facebook e dintorni, schiere di “esperti” (imbecilli, Eco docet) dispensano giudizi sui più disparati argomenti del giorno. Moltitudini si sentono in diritto/dovere di sentenziare sulla dinamica del disastro del Mottarone, presumibilmente tutti laureati su youtube in ingegneria, specializzazione teleferiche e cabinovie; subito dopo, i dottorati acquisiti all’Università della Vita (cit.) in medicina generale, virologia e chimica consentono alle medesime schiere di deliziarci con illuminati consigli medici e analisi del CV 19, di solito urlati scrivendo in caps lock con mezza dozzina di punti esclamativi; recentemente le lauree acquisite su fb hanno prodotto schiere di esperti di geopolitica e scienze militari che trattano della nota crisi est europea (ma anche della situazione nell’Indo-Pacifico) al pari, anzi, meglio del direttore di Limes.

E tralasciamo per amor patrio gli esperti di astronautica che negano le Apollo (dalla 7 alla 17) e che sostengono che Samantha Cristoforetti non esista (incredibile, costoro invece esistono); su terrapiattisti e rettiliani stendiamo infine il tradizionale, pietosissimo velo.

Non è finita. Nei social esistono blog più o meno seri ove si pubblicano centinaia di citazioni (di letterati, filosofi, ma anche artisti del rock o del cinema) e legioni di navigatori si industriano a riportarli, per intero o con adatto link, nella propria pagina fb; ovviamente oltre non si spingono, non sia mai detto che riportare una frase di Nietzsche comporti averne letto un’opera, o quantomeno conoscere per sommi capi il suo pensiero. Verrebbe da consigliare agli appassionati di Kant o Leopardi l’acquisto dell’opera omnia dell’autore da leggere in poltrona, magari con sottofondo di classica o di new age, con un buon bicchiere da meditazione sul tavolino.

Poi, l’italiano (eufemismo) usato per la bisogna dai novelli Quasimodo è generalmente quello che in prima elementare usavamo per scrivere i pensierini, tipo “la mamma cucina bene. Punto. A me piace il mare. Punto.”; il passo successivo, una serie di frasi più complesse, che costruivano il “tema”, pare ormai caduto in disuso. Due parole, punto. Tre parole, punto. E magari condite con l’aggettivo scoperto di recente e usato in quantità industriale, sicché tutto è “prezioso”; un post, un affetto, un amico, un risotto, uno spritz. Per non dire della terrificante usanza importata dall’uso dello smartphone, di scrivere tagliando le parole, come se il risparmio di decimi di secondi nello scrivere “tt” in luogo di “tutto” o “xkè” allungasse la vita; oltre alla scoperta del “K”, usato in luogo della C, sicché leggo (fresca di giornata) “qualkosa” e qui non c’è nemmeno, a scusante, l’accorciamento del vocabolo, siamo alla follìa. Naturalmente esistono anche moltitudini di cosiddetti analfabeti funzionali, tecnicamente in grado di leggere, ma difficilmente in grado di scrivere qualcosa di senso compiuto, non avendo più preso in mano una penna dopo la scuola dell’obbligo (sono però fruitori compulsivi dei tasti dello smart con l’italiano di cui sopra).

Si scrive troppo. E qua viene in soccorso un libriccino scritto nel 1771, dunque in epoca non sospetta: “Si scrivono cose inutili. (…) Si scrive su argomenti che bisognerebbe evitare quando non se ne ha il compito (…). Voi direte che sono autori: hanno scritto un libro. Dite, piuttosto che hanno sprecato della carta oltre ad aver perso il loro tempo. Diciamo tutt’al più – per non sembrare troppo critici – che sono rimasti gli stessi di prima. E’ questa la condizione dei fabbricanti di romanzi, di aneddoti, di racconti, di versi burleschi e licenziosi, eccetera. Rimarrà loro almeno il piacere di credersi autori” (Abate Dinouart, L’arte di tacere).

Fin qui l’Abate, tremendamente attuale. E infatti, chi non ha o non ha avuto il vezzo di tentare qualche rima o di scrivere un raccontino (un romanzo è già cosa complessa, un saggio è altro ancora) di qualche pagina, magari su simpatici ricordi d’infanzia? Il lavoro sarà sicuramente apprezzato quantomeno da parenti e conoscenti; la tecnologia web consente tra l’altro di stampare in proprio anche poche decine di copie da omaggiare agli amici che lo riporranno nello scaffale in bella vista (si fa così, di modo che l’autore lo veda subito nell’eventualità di una visita). Per parecchi è rimasto il sogno nel cassetto, per altri si è concretizzato una, due, più volte; l’obbiettivo è raggiunto, si è “scrittori”.

Annota ancora Dinouart in fondo al libretto, i “Principi necessari per esprimersi nei libri”, dei quali vanno ricordati almeno i primi due:

– E’ bene trattenete la penna, se non si ha da scrivere qualcosa che valga più del silenzio

– Esiste un momento per scrivere come esiste un momento per trattenere la penna

Il secondo principio fa ovviamente riferimento al noto versetto biblico “Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo” (Ecclesiaste, 3,1).

L’esortazione biblica è citata già nella prima parte del libriccino, nei “Principi necessari per tacere”, con i primi due che recitano:

– E’ bene parlare solo quando si deve dire qualcosa che valga più del silenzio

– Esiste un momento per tacere, così come esiste un momento per parlare.

Dunque, a 250 anni dalla pubblicazione, “L’arte di tacere” è ancora di estrema attualità; la lettura, è non solo consigliata, ma auspicata.

Qualcuno obietterà che, in fondo, anche lo scritto presente non è strettamente necessario. E’ vero, ma me ne rendo conto; è un vezzo e lo so. E confesso candidamente che a volte anch’io copio-incollo qualche vignetta simpatica dai blog satirici; di solito per burlarmi degli imbecilli di Umberto Eco, il quale, per sua fortuna ora diversamente occupato, è esentato dall’irritarsi per le nefandezze umane.

Francesco Brazzale

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