di Massimo Marcianò

Almeno su un punto, il giornalismo in Italia dovrebbe essere più avanti rispetto a quello di altri paesi. L’importante è che lo ricordiamo sempre tutti, però, in ogni occasione. Nel nuovo Codice deontologico delle giornaliste e dei giornalisti, molto articolato e attento all’evoluzione di tempi e tecnologie, varato molto opportunamente dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed entrato in vigore lo scorso 1° giugno, è ripresa con evidenza la norma che impone (non da oggi) di non coinvolgere in vicende di cronaca i congiunti o persone comunque collegate da qualsivoglia rapporto con i protagonisti. E di rispettare il principio dell’“essenzialità” dell’informazione.

Da giorni, all’opposto, assistiamo sulla stampa internazionale e nazionale alla pubblicazione di foto e notizie con dovizia di particolari anche dei coniugi (sbattuti incolpevoli di fronte all’opinione pubblica) dei protagonisti della recente “gogna mediatica”: la coppia “irregolare” svelata in mondovisione dalla kiss cam a un concerto del gruppo dei Coldplay. Con anche confronti (dispiace constatarlo, ma spesso postati da donne) fra la avvenenza della moglie tradita (con tanto di nome e foto della donna, trovata dopo attente ricerche) e la “estetica troppo ordinaria” dell’amante, come se le scelte di un uomo e i meriti di una donna fossero esclusivamente legati all’aspetto esteriore di quest’ultima.

E oggi, ci fa riflettere una ulteriore notizia uscita, che riguarda una collega dei due amanti, completamente estranea alla vicenda, ma in un primo momento da diversi media individuata e “raccontata” come una spettatrice imbarazzata per le immagini sul maxi-schermo dei due fedifraghi, ripresa anch’essa in foto sui giornali e sui social: in realtà non era lei, che a quel concerto non c’è mai andata. A testimonianza di quanto quella norma deontologica che impegna giornalisti e giornaliste italiani a non coinvolgere estranei sia valida, a tutela della dignità delle persone.

Più in generale, sulla vicenda dovremmo porci alcune domane, che non riguardano solo il fatto in se stesso ma anche, e soprattutto, fin dove è legittimo spingersi, con le tecnologie di oggi e con la facilità di diffusione di immagini e pensieri sui social network, per non lasciare spazio alla pruderie e al becero moralismo, che finiscono talvolta per rovinare per sempre la vita degli altri.

Che nel giro di pochi giorni vengono dimenticati dal popolo della tastiera facile e dai media a caccia di click, ma che si ritrovano la vita segnata per sempre.

Un fenomeno divenuto così invasivo nella realtà di oggi che è oggetto di studi e riflessioni in vari campi: dalla tecnologia alla sociologia, dal costume alla morale. E che ha ricevuto una ben precisa descrizione, tanto che è stato coniato il termine che lo individua e lo definisce nel dettaglio: doxing. Un fenomeno, inoltre, che può configurarsi come una violazione della privacy se non addirittura un reato, come spiega bene Geopop in un video sul suo profilo Instagram, che riproduciamo qui e che, molto opportunamente, riporta sì per diritto di cronaca le immagini, ma oscura i volti e non riferisce i nomi dei protagonisti.

Partecipare a un evento pubblico ti espone alla visibilità. Siamo tutti indubbiamente d’accordo. Ma, a meno che tu non sia un personaggio pubblico di interesse internazionale (o anche nazionale, per i media del tuo paese), quanto è di reale interesse dell’opinione pubblica che le venga fornita una tua immagine in primo piano, estrapolata dal contesto, e quanto invece è legittimo che l’immagine non sia “personalizzata” bensì riprenda solo la folla, il contesto dell’evento? Se poi qualcuno ti può riconoscere in mezzo al pubblico e ciò ti può creare conseguenze personali, devi esserne consapevole. Ma sul piano personale le conseguenze rimangono comunque.

E poi: una volta accaduto il “fattaccio”, andato in giro urbi et orbi grazie al web, cosa aggiunge di utile ai commenti sull’episodio il riproporre per giorni, ossessivamente, le immagini e i volti dei protagonisti? Una condivisione compulsiva (con tanto di meme che arrivano a ritrarre gli estranei coniugi e a riportare fatti irrilevanti per il pubblico, come le spese sostenute per partecipare all’evento “galeotto”) che serve solo a soddisfare il delirio di onnipotenza sulla vita degli altri che spinge quotidianamente orde di utenti a utilizzare i propri account social per discettare su tutto, dalla medicina alle esplorazioni spaziali, e a ergersi a giudici morali della vita e delle scelte degli altri.

Una sete di moralismo che, spiace dirlo, in questa occasione ha (di nuovo) colpito anche autorevoli testate giornalistiche, che stanno continuando a riproporre ossessivamente le immagini di quelle persone, come una moderna gogna e come se la morale ipocrita sugli altri ci rendesse migliori di loro. Solo perché, a differenza delle nostre vittime del momento, noi abbiamo avuto la fortuna di non vedere pubblicamente scoperte le nostre personali debolezze. Chi non ha mai paura di una kiss cam scagli il primo post!

«Capisco la dittatura dell’engagement rate – osserva giustamente la blogger e scrittirice Stella Pulpo su Instagram -, capisco che viviamo in una sorta di apocalisse intellettuale e di regressione irreversibile dell’umano, ma rendiamoci conto, vi prego, che quei due individui, per quanto adulti e per quanto adulteri, non meritano certo questo picco di notorietà, né la caccia alla loro identità che si è scatenata online».

E dice ancora Stella Pulpo: «Mi colpisce anche la straordinaria quantità di moralismo che trasuda dai commenti. Ora io non voglio ergermi in difesa dei due fedifraghi perché non è questo il punto, ognuno vive come può e come ritiene, e ne risponde privatamente, ma mi interessa constatare il livello di ipocrisia di cui l’utente medio è capace. Basterebbe guardare nel proprio vissuto, nelle chat, nei pensieri che non diciamo, nelle cronologie dei nostri computer, negli incontri che orchestriamo, nei caffè galeotti, nei desideri nascosti, negli archivi sentimentali, nelle nostalgie erotiche, nelle storie di tutti per capire che forse nessuno vorrebbe i fari puntati su di sé».

C’è veramente bisogno di continuare a pubblicare la foto di quei due su ogni post che compaia in un qualsivoglia social o a corredo di articoli giornalistici? Aggiunge qualcosa al contenuto del pensiero che si esprime nel post o nell’articolo, corredarlo di quella immagine, continuando a perpetrare la pubblica gogna di due persone che stanno già pagando le conseguenze dell’accaduto, moralmente e materialmente (sul lavoro, come ci raccontano con dovizia di particolari le cronache, e sicuramente anche in famiglia)? Personalmente, apprezzerei qualunque opinione sulla vicenda e magari la riterrei anche utile a capire dove ci sta spingendo la tecnologia oggi, ma la pubblicazione della foto (cosa che ha valore solo per l’algoritmo che innalza la visibilità del post o dell’articolo) la rende in ogni caso poco interessante.

Perché altrimenti come dare torto a coloro i quali sostengono che non ci sia più bisogno di giornalisti e giornali perché tanto tutto quello che noi “del mestiere” raccontiamo si trova già sui social? Se vogliamo dimostrare che il giornalismo continua ad avere una funzione sociale (e in Italia anche sancita dalla Costituzione) e una dirittura deontologica che lo distinguono da qualunque altra modalità di racconto pubblico, cominciamo a non inseguire, quando non addirittura a scimmiottare, l’irresponsabilità di alcuni frequentatori dei social, moralisti da tastiera con la kiss cam degli altri.

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