Bruno Benetti ha un dono: sa guardare oltre. Come se per osservare il mondo salisse sul tetto di un grattacielo, o in cima alla sua azienda a Villaverla, la Itipack, nata nel 1970 e ora diventata casa madre del Gruppo internazionale del packaging, con una galassia di filiali e consociate in Italia e all’estero, con clienti in ogni angolo del mondo, dall’Asia al Sud Africa, dal Canada all’Australia, dall’Europa agli Stati Uniti. Uno dei più limpidi esempi dell’eccellenza produttiva dell’Alto Vicentino. Bruno Benetti ha l’innovazione nel suo dna: dall’alto della sua azienda, guarda, osserva, riflette. Poi scende e con la sua cortesia, la sua eleganza, la sua riservatezza, il suo tono pacato, con la sua straordinaria esperienza, racconta cosa ha visto, cosa sta per accadere e detta le strategie migliori da mettere in campo per cavalcare l’onda. Lo fa da sempre. La prima volta nel 1964, quando comincia la sua storia di capitano d’industria.

«In realtà la mia storia lavorativa è iniziata qualche anno prima, nel 1958. Avevo 12 anni. Di giorno lavoravo come tecnico itipack-groupelettrico, la sera invece frequentavo le scuole serali, all’Istituto Rossi di Vicenza. Volevo imparare, volevo capire. Anni duri, si lavorava anche il sabato e la domenica, molte fabbriche si fermavano e bisognava fare interventi per ampliamenti, con stipendi da poche centinaia di lire al mese. Anni di gavetta. A 17 anni ho deciso quindi di mettermi in proprio coinvolgendo anche mio padre e i miei fratelli nell’attività. E sono stato aiutato da alcuni industriali qui della zona, che avevano bisogno di impiantistica. Mi prestarono dei soldi per aprire un negozio di materiale elettrico, radio, tv, elettrodomestici con marchi come Ignis e Grundig e molti altri di buona qualità. Era un momento magico. Nelle case entravano i primi elettrodomestici, le famiglie avevano bisogno del lampadario, della stufa per scaldarsi, del frigorifero. Insomma, ho fatto impresa. Però non sono rimasto in negozio. Sentivo la necessità di guardare cosa succedeva altrove. Sono andato in Giappone e negli Stati Uniti, così, per curiosare. Per capire. E, tornando, portavo qui le idee migliori e tentavo di metterle in pratica. Ma spesso mi davano del pazzo».

Può raccontarci la sua prima “pazzia”?

«Negli Stati Uniti, alla fine degli anni 60, non funzionava come qui da noi: un negozio qui, un altro a un chilometro. Lì li avevano messi tutti insieme, vicini, concentrati. Più comodo per il cliente, no? Quando sono tornato ho parlato con alcuni commercianti e ho proposto: perché non ci mettiamo assieme, vicini, in un’unica area riservata ai negozi? Ognuno continuerebbe a curare il suo settore. “Tu sei pazzo”, mi risposero. “Non vogliamo concorrenti tra i piedi”».

Era la fine degli anni 60, mentre il primo prototipo di centro commerciale in Italia fu aperto a Bologna nel 1971. Forse non presero sul serio un ragazzo così giovane…

«In effetti ho cominciato molto giovane. Nel ’64, ancor prima di compiere diciott’anni, in tasca avevo già l’emancipazione, una particolare licenza che mi permise di intraprendere l’attività commerciale e imprenditoriale, pur non essendo maggiorenne. Le racconto un altro episodio di quel periodo. A 17 anni facevo già parte della Camera di Commercio di Monaco di Baviera. Mi avevano affidato l’incarico, e conservo ancora i documenti dell’epoca, di trovare alcuni ettari di terreno qui nella nostra zona. Bosch, Grundig e varie compagnie tedesche volevano delocalizzare le produzioni tecnologiche. Le aree dovevano avere determinate caratteristiche, ad esempio vicino alla ferrovia, e con la possibilità di edificare case da offrire ai lavoratori. Li trovai, a cavallo tra i comuni di Villaverla e Montecchio Precalcino. Trenta lire al metro quadrato. Parlai con i sindaci, tutti d’accordo. Io, naturalmente, avrei avuto una provvigione sulla vendita delle aree. Pensate che indotto avrebbe potuto avere questa operazione a livello tecnologico. Erano tempi difficili, fino a qualche anno prima la gente era costretta a emigrare. C’erano quindici fornaci attive, ognuna aveva 70-80 dipendenti. Ed io, ai tedeschi, avevo assicurato che c’era manodopera disponibile. Ma alcune persone a livello istituzionale diedero parere negativo, escludendo la possibilità di trovare la manodopera necessaria. Probabilmente venivano visti come concorrenti e temevano che ci fosse un esodo di dipendenti dalle aziende della zona, attratti da migliori condizioni di lavoro e della possibilità di avere anche un alloggio. Risposi: è un modo di pensare sbagliato. Guardate che tra un po’ di anni molte aziende saranno talmente automatizzate da non avere più la stessa richiesta di manodopera. Furono irremovibili. Per me fu una brutta figura con la camera di commercio italo-tedesca, ma per questo territorio fu una grande occasione buttata al vento. E oggi le fornaci attive sono appena due».

Poco coraggio o poca lungimiranza?

«Ognuno fa le proprie scelte. Per me andare all’estero è stata, e continua a essere, l’occasione per crescere, anche culturalmente. Certo, all’epoca non tutti avevano la possibilità di viaggiare, di confrontarsi. Purtroppo oggi tendiamo a ritirarci nei nostri recinti, a chiuderci, quando invece dovremmo essere sempre più aperti, pronti a guardare fuori cosa succede. La storia, il passato, dovrebbe servire per migliorare il nostro futuro. E pianificare, per far sì che il domani non diventi un’incognita: non possiamo continuare a vivere solo il presente, alla giornata».

Pianificare individualmente o collettivamente?

«Entrambi. Perché pianificare vuol dire investire. Un’azienda immagina dove vorrebbe collocarsi da qui a un determinato tempo e organizza le azioni necessarie per raggiungere quell’obiettivo. Se non lo fa viaggia a vista, con tutti i rischi che comporta. Lo Stato altrettanto: dovrebbe scegliere cosa fare, in quanto tempo e per agevolare chi, dalle famiglie alle imprese».

Per lo Stato ha usato il condizionale…

«Perché lo Stato, qui in Italia, tutto fa tranne che pianificare. Facciamo un confronto banale, parlando d’impresa, s’intende: in Germania lo Stato ti segue, ti aiuta, ti supporta. Lo fa perché un’azienda sana e dinamica fa bene all’economia, nel breve e nel lungo periodo. In Italia no. In Italia siamo soli. Lo Stato non è un alleato, non è un amico: è un ostacolo».

Sta parlando di tasse?

«Di tasse, di politiche per il lavoro, della totale assenza di organizzazione, direi addirittura di rispetto per le imprese. Chi paga di più dovrebbe essere premiato. Se un mio venditore riesce a portare 1 milione di euro in più va premiato dicendogli “sei bravo”. Se un’impresa cresce, e paga più tasse, tu Stato, dovresti premiarla non bastonarla. Aumenterebbe la liquidità, la crescita dell’impresa, creando maggiore occupazione. Lo Stato dovrebbe essere un partner. Come accade negli Stati Uniti. Vent’anni fa ero in North Carolina per aprire una sede: sono stato ricevuto dal governatore, mi ha invitato a pranzo, ha fatto venire il responsabile del fisco, e da Charlotte il dirigente della banca. Il terreno costava 30 dollari al metro quadro. Non volevano grandi aziende, ma piccole-medie, da impiegare 15-20 dipendenti. Non volevano grandi aziende perché poi, in caso di crisi, le difficoltà sociali sarebbero state più grandi. Il capo della banca mi ha chiesto: “Di cosa ha bisogno sig. Benetti?” E quello del fisco: “Lei quando vorrebbe cominciare a pagare le tasse? Tra due anni? Tre anni? Decida lei.” E’ un altro mondo. Lì stendono tappeti rossi per le imprese, qui scavano buche e rendono accidentato il terreno».

Perché in Italia non c’è questa pianificazione, questa alleanza?

«Perché non abbiamo politici preparati. Non basta fare politica, serve cultura politica».

E intanto i giovani vanno all’estero…

«Per forza. I giovani di oggi hanno talento e ingegno. Quello che manca loro è la possibilità di fare esperienza. Solo dalla provincia di Vicenza sono emigrati migliaia di giovani negli ultimi anni. Recentemente avevo bisogno di assumere tecnici specializzati, progettisti, softweristi. Ho lasciato 6 mesi un cartello in strada, ma personale non si trova. E io non vado a rubarli in altre aziende offrendo di più. Se ci fossero dei centri per l’impiego efficienti sarebbe molto più semplice sia per le aziende sia per i lavoratori, ma non c’è coordinamento; mentre le persone che cercano lavoro, per contro sono costrette a presentare il proprio curriculum porta a porta».

Qual è il profilo di lavoratore più ricercato?

«Soprattutto progettisti e softweristi per l’automazione. L’industria sta crescendo, la robotica è la nuova frontiera. E tenga conto che in tema di robotica le aziende americane sono tecnologicamente indietro 15-20 rispetto all’Europa, quindi anche rispetto a noi. E sa cosa fanno gli Usa? Concedono incentivi, per far sì che le aziende europee vadano lì a investire, a portare tecnologia e innovazione».

Quale consiglio darebbe alle famiglie, ai genitori?

«Fate studiare i vostri figli. Fateli specializzare. E mandateli all’estero per farli crescere, per fare esperienza».

Lei ha mai pensato a un impegno in politica?

«No, non fa per me. Non sono un uomo da compromessi. Se una cosa è bianca dico che è bianca, non riesco a dire che è rossa. Ho frequentato Roma, ho visto quelle dinamiche. E ho capito che non fanno parte della nostra cultura imprenditoriale».

Torniamo alla sua attività d’imprenditore, all’impero che ha creato nel settore delle automazioni per l’imballaggio, alla vastità del vostro mercato estero. E al suo legame con il territorio dell’Alto Vicentino. Ci spiega come mai è rimasto qui a Villaverla?

«Ho avuto diverse occasioni per spostarmi, ma per vari motivi ho sempre rinunciato. Ricordo nel ’75, un incontro con i vertici di un grande gruppo americano del packaging, la Fmc. Il direttore della sezione reggette e macchine mi offri di trasferirmi li, portando il mio know-how, negli Stati Uniti. Risposi di no. Sarebbe stata una grande opportunità professionale. Ma qui c’era la mia famiglia, se fossi andato via si sarebbe in qualche modo rotto un equilibrio. Ho preferito rimanere».

Ha rimpianti?

«Nessun rimpianto. Ci stiamo espandendo negli Stati Uniti e in Messico con sedi nostre, e così facendo di riflesso incrementiamo anche la produzione in Italia».

Continua a frequentare molto gli Stati Uniti…

«Ma non solo. Ieri come oggi. Negli anni ’70 andavo a fare i mercati in Sudafrica, in Australia… Restavo fuori un mese. Ricordo che piantavamo le tende nei giardini pubblici di Melbourne, di Adelaide, di Sidney. Il mio rappresentante australiano non parlava italiano, io parlavo soltanto il dialetto veneto. Ma in qualche modo riuscivamo a capirci. Piazzavamo accanto alla tenda un bidone pieno di ghiaccio e birre, 4 lanterne a gas, perché le dimostrazioni le facevamo la sera, che era più fresco, e invitavamo i capi stabilimento a valutare se la nostra tecnologia poteva essere utile per le loro aziende. Macchine per l’automazione che facevano risparmiare il lavoro di 6 persone al giorno. Erano i primi anni della Itipack.

Quante lingue parla?

«Soltanto una, l’inglese. E l’ho imparata myself, studiando a Leamington in Inghilterra, trattenendomi lì come “ragazzo alla pari”».

C’è uno spicchio di mondo dove non ha mai messo piede?

«Credo soltanto sulle isole dove si vanno a fare le vacanze», (e sorride).

C’è un luogo, un paese in particolare che le è rimasto nel cuore?

«Ho avuto la fortuna di vedere posti meravigliosi, dalla Siberia, al Canada, dagli Stati Uniti al Brasile. Nel cuore mi è rimasto il Sudafrica, nei primi anni ‘70 era un paese meraviglioso, splendida Città del Capo. Ma anche l’Australia era ed è bellissima».

Come veniva accolto? C’era, all’epoca, considerazione per gli imprenditori italiani?

«Ce n’era eccome! Era il cliente che ci invitava a pranzo. E in nostro onore metteva fuori la bandiera italiana. Portavamo tecnologia alle loro aziende. A quell’epoca le domande erano prettamente tecniche. Per fare un esempio, qual è lo spessore di vernice della macchina? Quanti gradi di isolamento ha il filo elettrico? Solo alla fine si parlava di how much, del prezzo. Ora è il contrario, quasi sempre si parte dall’how much. Non tutte ovviamente, ma la maggior parte. E cosa fanno le aziende? Tentano di ridurre i costi. Allora quel bullone invece che da 8 lo metto da 6. Ma così la macchina si romperà prima. E questa strategia non ha futuro. Perfino i cinesi hanno finalmente capito che il problema non è il prezzo, ma la durata, l’efficienza dello strumento. E noi abbiamo macchinari che funzionano da 30-40 anni. Proprio oggi due nostri tecnici sono partiti per l’Australia, un grande gruppo che ha una ventina di nostre macchine, vogliono tecnici diretti per fare le revisioni. E questo per noi è motivo di grande soddisfazione».

Quindi bisogna puntare forte sulla qualità?

«La qualità è e sarà il futuro. L’assenza di qualità non funziona in nessun paese».

Sembra un motto da appendere nei luoghi di lavoro frequentati dai più giovani…

«Sa qual è uno dei problemi più seri e profondi che ha l’Italia? Il nostro paese non ha più maestri. Si premia la mediocrità, l’obbedienza, la condiscendenza. E purtroppo non ci saranno più imprenditori come noi che siamo cresciuti nel dopoguerra. Ma i nostri giovani sono capaci e brillanti: perché devono andare all’estero per vedere riconosciuti i loro talenti»?

Lei si considera un maestro?

«Beh, in qualche modo è quel che faccio adesso. Se vedo qualche passaggio sbagliato o frettoloso vado dal responsabile di settore, gli spiego come fare, gli consiglio di rifarlo. Per insegnargli che le cose vanno fatte mettendoci la testa, non soltanto le mani. Chi lavora deve metterci il cuore e avere un’anima, altrimenti non si fanno le cose fatte bene».

Secondo lei c’è qualche speranza?

«Penso che gli imprenditori italiani, anche i più giovani, siano molto preparati. A noi italiani ci salva la creatività. Il lavoro dei nostri padri, dei nostri nonni, i racconti a casa. Così siamo cresciuti. E’ nel nostro dna. Altri popoli non ce l’hanno ad esempio. Poi, certo, servono gli strumenti per convogliare questa creatività. E’ lo Stato, per restare alla metafore, che deve preoccuparsi di riparare i buchi dell’acquedotto. Sposando e favorendo la creatività, l’innovazione. Facendo squadra».

Eppure sembra prevalere la mediocrazia…

«Purtroppo è vero. Non tanto nelle aziende private, ma nel pubblico la mediocrazia è predominante. Come se io assumessi solo chi mi dà ragione: assurdo. E improduttivo. Solo che bisogna avere il coraggio di dirle queste cose, di raccontarle, di scriverle. I giornali spesso raccontano verità parziali. Finché non ci sarà trasparenza questo paese non potrà riemergere».

L’Italia, a suo avviso, sta smarrendo il senso della comunità?

«Purtroppo sì, ed è uno dei grandi temi che saremo costretti ad affrontare. Non c’è più senso della comunità a livello nazionale, ma anche qui, nei paesi. Per capire guardo al passato, a cent’anni fa, ai Lanerossi, ai Marzotto, al loro impegno sociale, nella costruzione delle case per i lavoratori per fare un solo esempio. Erano presenti, incidevano sul territorio sostenendo il teatro locale, la Proloco. Ora tutto questo è andato smarrito. Guardo alle famiglie, alle difficoltà che incontrano, alla mancanza di lavoro, ai figli che non riescono a diventare autonomi. Le aziende, ciascuna per le sue possibilità, non deve guardare soltanto numeri e bilanci. Io guardo anche il lato etico: a volte si assumono delle persone non soltanto per le loro capacità, ma anche per aiutarli a inserirsi, o reinserirsi, nel mercato del lavoro».

Il cuore del suo business è produrre macchinari per imballaggi, vale a dire innovazione, automazione. Macchine che fanno quel che una volta faceva, a mano, l’operaio. Sottraendo lavoro all’uomo. O meglio, modificandolo. Qual è a suo avviso l’importanza del rapporto tra imprenditore e dipendente? Può esistere complicità?

«Certo che può esistere. Anzi, deve esistere. Per me è fondamentale. E’ l’uomo che fa l’azienda. Qui da noi ci sono figure che hanno 30, 40 anni di anzianità. Hanno dato molto all’azienda. Per questo ritengo opportuno che in futuro una parte degli utili che l’azienda produce vadano distribuiti tra il management e tutto il personale, ma a chi se lo è meritato e non una distribuzione a ‘pioggia . Io con i miei dipendenti ci parlo, chiedo il loro parere, li ascolto. I risultati sono merito anche dell’imprenditore, certo, ma il ruolo di ogni figura in azienda è indispensabile. Qui però torniamo al problema dell’Italia, dello Stato. Se io imprenditore do 10 come premio produzione, la mia azienda ne paga altrettanti in contributi e tasse. Dovrebbero esistere leggi per favorire queste alleanze tra azienda e personale dipendente. Qualsiasi somma è tassata. Se voglio distribuire 100 euro, di effettivi, reali, ne restano 50. Per gli straordinari è la stessa cosa. A molti lavoratori fare straordinari non conviene. Così ho deciso di pagarli non al 20%, come dovrebbe essere, ma al 40%. E l’unico modo che ho per incentivarli».

Uno schiaffo all’economia senz’anima che sembra tanto andare di moda in questi anni. Ma sento una nota di pessimismo…

«No, non sono pessimista. Ho la fotografia di tutti i giorni, vedo i problemi e vedo anche quali dovrebbero essere le soluzioni: incentivi alle aziende, incentivi a chi lavora. Ci sono dipendenti che hanno necessità particolari, chi a casa ha qualcuno da badare… Sono esigenze sociali che si riversano sulle aziende. Così, qui alla Itipack, abbiamo modellato gli orari di lavoro a seconda di ogni singola esigenza. Io pianifico, immagino cosa accadrà domani e mi regolo di conseguenza. Risolviamo il problema in casa. Bisognerebbe farlo anche a livello centrale, dovrebbe farlo lo Stato».

Lei è una mosca bianca, lo sa?

«Io metto l’etica al centro della mia attività. So bene che ci sono imprenditori che non hanno attenzione alle esigenze di chi lavora. E questo è un problema, a mio avviso grave. Ma conosco anche tanti altri imprenditori che sanno dare valore alle persone che lavorano con loro. Ripeto, sono le persone che fanno le aziende, non soltanto le macchine.

Quante sono le aziende della galassia Itipack?

«A volte non lo so nemmeno io (e sorride). Ne nascono, ne muoiono, stiamo facendo proprio in questo periodo una grande pulizia, con la cessione delle aziende che non fanno parte del nostro core business: ci concentreremo esclusivamente sul packaging a livello internazionale».

Di quante ore è la giornata lavorativa di Bruno Benetti?

«Lavoro dalle 8,30 alle 13, poi dalle 14 alle 19».

E lavorare stanca?

«Mai. Mi stanco a stare seduto».

E’ vero che lei è un appassionato di cinema?

«Sì, è un’altra mia passione; quando ero in Australia negli anni ’70, i clienti che visitavo dicevano che gli italiani sono bravi, riferendosi al film di Sergio Leone – Spaghetti Western, che peraltro era un bel modo di portare nel mondo il marchio del made in Italy. Oggi mi piace sostenere giovani registi che vogliono emergere. Mi piace leggere sceneggiature. E se incontro storie che meritano di essere raccontate sono ben contento di dare una mano e di finanziare il progetto. Abbiamo finito di girare un film che è ora nelle sale; è un film prodotto con la nostra società Oneart, girato a Luserna, e proprio adesso abbiamo iniziato a girarne un altro in Sardegna, che tratta un fatto di cronaca realmente accaduto, ma sul quale non è mai stata raccontata tutta la verità. Sono convinto che la cultura deve restare una colonna portante della nostra società».

Altre passioni nel tempo libero?

«Sono uno sportivo: amo andare in bicicletta, fare trekking, nuoto tutti i giorni, mezz’ora ogni sera. E poi sono appassionato di volo, sono elicotterista da 25 anni. Mi piace molto vedere le cose da lassù».

Sessant’anni di lavoro trascorsi lassù a guardare il mondo, con la curiosità del ragazzino di ieri, con l’occhio esperto dell’imprenditore di oggi. Ma sempre con lo stesso immutato desiderio di capire, di crescere, di innovare. Perché Bruno Benetti sa guardare oltre. Se si trattasse di uno sport, lui che lo sport ce l’ha nel sangue, sarebbe campione di “sguardo in lungo”.

A.G.

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