Cento anni. Sono quelli che ha compiuto oggi, venerdì 24 marzo, Valentino Bortoloso, detto il Teppa, condannato per l’Eccidio del 7 Luglio 1945  quando furono uccise 54 persone disarmate che si trovavano nel carcere di Schio in attesa di essere condannati o scagionati.

Nato in una famiglia di undici figli, da genitori profondamente cattolici, padre operaio della storica Lanerossi, a soli 7 anni cominciò a lavorare nei campi come contadino, e successivamente come operaio in una fabbrica tessile e in una carrozzeria. Arruolatosi nei carabinieri, nel marzo del 1942, fu richiamato a combattere nella  campagna di Russia. Dopo una serie di disfatte sul fronte, fece ritorno in Italia. Dopo l’8 settembre 1943 rifiutò di aderire alla  Repubblica Sociale Italiana e si arruolò nella Resistenza nella  Brigata garibaldina Martiri della Val Leogra . Da allora il suo nome di battaglia diventò  Teppa.

Nel dopoguerra, precisamente il 7 luglio 1945 , Bortoloso, che nel frattempo si era aggregato alla polizia partigiana, insieme ad altri undici ex partigiani tutti armati e mascherati, fece irruzione di sera nelle carceri di Schio dove erano reclusi un centinaio tra ex combattenti fascisti, parenti di fascisti, e gente comune. Il commando uccise  54 persone, ferendone 17. I successivi processi provarono che delle vittime solo la metà erano coinvolte con il passato regime fascista. Per alcune addirittura erano stati emessi gli ordini di scarcerazione, tenuti però fermi nei cassetti per motivi politici.

Il 6 agosto successivo, il comando inglese che amministrava la città, arrestò 5 dei partigiani  tra cui anche Valentino Bortoloso . Altri riuscirono a sfuggire alla cattura. Dopo essere stato torturato nel carcere inglese, nel corso del quarto interrogatorio ammise finalmente il reato ed i nomi dei complici ma non quelli dei mandanti. Fu inizialmente condannato alla pena di morte, poi commutata in ergastolo. Uscì di prigione per intervenuta amnistia dopo aver scontato dieci anni.

Nel 2016 gli era stata conferita dal prefetto di Vicenza la Medaglia della Liberazione . Successivamente gli venne revocata dal Ministero della Difesa, dopo che l’Associazione parenti delle vittime ed il sindaco di Schio Valter Orsi avevano fatto presente le sue responsabilità nell’eccidio. Per contestare quella medaglia, scese in campo anche il consiglio pastorale che scrisse  una lettera aperta alla cittadinanza: “Abbiamo accolto con stupore e preoccupazione la notizia dell’assegnazione dell’onorificenza “Medaglia della Liberazione” a uno degli autori dell’Eccidio del 7 luglio ’45… Tale onorificenza assegnata a persona riconosciuta colpevole per l’Eccidio non può essere moralmente e civilmente accolta… Nella nostra Città i valori alti della Resistenza sono stati consegnati in piena verità al presente e al futuro dei giovani nella “Dichiarazione sui valori della concordia civica a 60 anni dai fatti di Schio” sottoscritta il 17 maggio 2005 dall’amministrazione comunale, dall’Anpi, dall’associazione Volontari della Libertà e dal Comitato familiari vittime Eccidio di Schio. L’onorificenza assegnata a uno degli autori dell’Eccidio è da considerarsi un atto improvvido che di fatto ridimensiona, relegandolo nel privato, quel patto di riconciliazione che deve continuare a essere riconosciuto come uno dei valori più alti della nostra convivenza cittadina e del nostro cammino pubblico…”.

C’è da sottolineare che nel febbraio 2017, a 72 anni dell’eccidio, Teppa firmò insieme ad Anna Vescovi, figlia di una delle vittime, una lettera di perdono e riconciliazione alla presenza del vescovo di Vicenza Pizziol. “L’atto che oggi si compie in questo giorno e in questo luogo ha un significato decisivo per la vita di queste due persone, ma anche per i familiari delle vittime dell’eccidio di Schio, per l’Associazione Artigiani e per comunità civile e religiosa e diventa scuola di pace vera e di perdono autentico, per le giovani generazioni. Anna e Valentino – disse il vescovo – mi hanno chiesto di essere testimone di questo evento, tra i più di difficili e sofferti che si realizzano nella storia, spesso tormentata e inquieta, degli essere umani. Siamo davanti a una donna che attraverso un percorso spirituale, sostenuto dalla riflessioni biblica e da una grande sensibilità umana, arriva a una tale libertà libera dello spirito, da iniziare la lettera inviata a colui che le ha ucciso il padre, mentre era ancora bambina, con queste parole: caro signor Valentino”.

“Queste semplici e mirabili parole – concluse monsignor Pizziol – sono riuscite a far cadere, in un attimo di tempo, le barriere dell’odio e delle rivendicazioni, per lasciar posto a sentimenti di pace e di misericordia, espressi concretamente da un commosso abbraccio di grazia e di perdono».

Pare che oggi Valentino via in una casa di riposo dell’Alto Vicentino.  La sua testimonianza è raccolta nel libro “Noi, Partigiani”.

N.B.

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