Una settimana fa, su prescrizione del pediatra, ho portato mio figlio di un anno e mezzo a fare il tampone e ho toccato con mano la disorganizzazione della ‘macchina’ che nel periodo natalizio si è mostrata in tutta la sua evidenza.

Due ore e mezza di coda nella corsia prioritaria dedicata ai bambini, ancora di più per quelli arrivati più tardi. Non oso immaginare le tempistiche nella fila degli adulti, molto più lunga e lenta.

Noi eravamo al caldo, ma ammassati in uno stanzone senza ricambio d’aria, pieno di bambini per ovvi motivi senza mascherina, che tossivano e starnutivano. Della serie “se non ce l’ha, se la prende qui”.
C’era una sola sedia, così mi sono tenuto in braccio il piccolo per tutto il tempo, mentre i più disperati si sedevano per terra.

Dalla Regione dicono che il problema è la mancanza di personale: certo che c’è carenza di personale, ma il collo di bottiglia è l’organizzazione.

Al di là dell’assenza di sedie e di ricambio d’aria, in accettazione ci sono solo due pc, molto lenti. Ne consegue che servono alcuni minuti per registrare ogni singolo paziente.

Se non hai il cartaceo è pure peggio: nel 2021, alla faccia della digitalizzazione nella pubblica amministrazione, non avere il pezzo di carta fa allungare i tempi invece di accorciarli.

Non c’è alcun sistema per eliminare la fila, che è del tutto autogestita e del tipo “chi va a Roma perde la poltrona”: le prenotazioni online sul sito dell’Ulss erano inutili, tutti venivano invitati a mettersi in coda in ordine di arrivo. Così le persone, costrette a stare ammucchiate, si sono fatte guardinghe: è un attimo, ti giri e si infila l’approfittatore di turno.

L’ho visto più volte coi miei occhi: gente che si intrufola dentro la porta dell’accettazione e ruba il posto ai bambini malati, ripeto, ai bambini malati. Che feccia.

Nessuna direttiva sugli accompagnatori. Il buonsenso direbbe che nella fila prioritaria ci sia al massimo un accompagnatore per ogni utente. La realtà è diversa: intere famiglie di 4/5 persone erano lì, nella corsia preferenziale, usando il bimbo di casa come grimaldello per non far fare la fila normale agli adulti. Col risultato di dilatare i tempi per chi, dietro di loro, aveva davvero diritto a una priorità.

Dei drive-in nemmeno l’ombra. Sarebbero utili: almeno si aspetterebbe ognuno nella propria auto, seduti e comodi, senza rischio di assembramenti pericolosi e sciacalli del salta coda. Ma sia mai che in Veneto si copi da chi fa meglio.

Tornando alla cronaca di quella mattinata, arrivato al box per fare il tampone chiacchiero con l’infermiera. Ha gli occhi stanchi, si vede, ma è gentilissima e sorride a tutti, specialmente ai bambini con i quali è di una dolcezza meravigliosa. Per rompere il ghiaccio le chiedo se riesce almeno a fare qualche pausa, visto l’afflusso pazzesco di questo periodo. Mi risponde con un’eloquente scrollata di spalle, mi chiede se sono vaccinato e se lo è la mamma.

Rispondo di sì. Mi dice che siamo stati coscienziosi, ma che non è scontato, anzi. Si apre, ha bisogno di parlare. Mi racconta che finché si lavora per chi ha fatto di tutto per proteggere se stessi e gli altri, lo si fa volentieri.
Il problema è la gente che entra sghignazzando. Non vaccinati, convinti che sia tutto uno show per il complotto del secolo. Entrano tronfi, soddisfatti di far perdere tempo agli altri, i pecoroni, per un semplice raffreddore. E glielo dicono apertamente. L’infermiera me lo racconta a denti stretti, la rabbia è palpabile. Come non capirla? Il tampone in un attimo è fatto, la ringrazio di cuore e me ne vado.
Lei rimane la, a infilare infiniti cotton fioc in infinite narici. Alcune grate del suo lavoro, altre molto meno.
Come emerge anche dall’intervista di Anna Bianchini pubblicata qui su Altovicentinonline, per i lavoratori della sanità è davvero dura: turni massacranti, sacrifici personali, rischi, stress. Questo per aiutare anche chi li tratta con disprezzo: quando va bene con una presa per i fondelli, quando va male con insulti veri e propri, e quando va peggio con l’avvocato.

Si cerca di trovare un senso a questo delirio. Così si finisce per definirli vittime, della loro ignoranza e di chi l’alimenta. C’è una frase di uno dei miei scrittori preferiti, Philip K. Dick, che calza a pennello: «la realtà è quella cosa che, quando smetti di crederci, non scompare». Eppure queste persone sono disposte a chiudere gli occhi, per sempre, pur di non vederla: menti schiave di dogmi autoimposti, irrazionali, figli di una fede cieca.

Non credo siano semplici vittime.

Non è sempre colpa degli altri e non c’è sempre un capro espiatorio da sacrificare per lavare le coscienze collettive.
Gli anni passeranno e la storia dimostrerà dove sta la ragione e dove la superstizione, chi ha più colpa e chi ne ha meno. Ma d’innocenza ce n’è gran poca: crediamo davvero che ci sarà un pentimento di massa? Crediamo davvero che quella gente tornerà in ospedale con un mazzo di fiori a chiedere scusa per tutte le cattiverie?
No, non accadrà nulla di tutto questo.

Ognuno, nel suo piccolo, ha una responsabilità individuale verso la collettività e deve fare ciò che può per proteggere se stesso e gli altri: chi non lo fa non è una piccola vittima.

È un piccolo carnefice.

Giacomo Stiffan

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