Violenza fisica e verbale, atti di bullismo assurdamente crudeli che sembrano uscire direttamente dallo schermo del cinema e una cattiveria che si fatica ad immaginare.
Sono molti, troppi, gli episodi terribili che vedono protagonisti adolescenti e giovani, che sfogano con la violenza e contro il prossimo una frustrazione che, evidentemente, è devastante. Episodi all’Arancia Meccanica, a volte preannunciati con messaggi scritti o dichiarazioni di vendetta. Un banale tradimento che si esorcizza augurando la morte, la naturale invidia combattuta a suon di offese e a peso d’odio, a volte rivolta contro tutto e tutti e senza nemmeno un destinatario diretto.
Basta passeggiare per Thiene, una cittadina come tante (e forse meglio di tante) per rendersi conto che la violenza è dilagante, soprattutto quella verbale e scritta. Lo sa bene Giovanna Calapai, psicologa e psicoterapeuta, che ogni giorno è a contatto con casi difficili. Le scritte sotto il portico di Vicolo Malcanton sono solo l’espressione fisica del disagio di ragazze e ragazze che non sanno come sfogare la loro frustrazione e attraverso le offese, con scritte che invocano o augurano addirittura la morte, sperano di alleggerire la pesantezza della loro anima.
Che cosa sta succedendo ai ragazzi oggi? Perché tutta questa violenza?
Il disagio giovanile è il risultato di una implosione culturale che si manifesta in una desertificazione dei valori. Spesso ci troviamo di fronte non solo a giovani, ma a persone di ogni età ‘derubate’ della ‘mappa dei valori’, delle coordinate per affrontare l’ignoto della vita. Quando i valori perdono il loro valore, l’incertezza, la confusione aumentano fino a cancellare ogni obiettivo, ogni prospettiva per il futuro. Soprattutto notiamo che il linguaggio emotivo si sta drasticamente impoverendo. Le persone riportano il loro malessere ma non hanno più parole per descriverlo, non hanno più spazi per condividerlo con gli altri, non hanno più tempo per dedicargli una riflessione, per capirne la provenienza, figuriamoci per rintracciarne una soluzione, quindi non raramente quest’ultima si traduce in manifestazioni di rabbia, violenza verso gli altri e autodistruttività.
Ragione e religione, non dovrebbero essere dei parametri che regolano gli impulsi violenti?
In passato probabilmente sì. Ma se prima tali impulsi venivano regolati dalla religione e dalla ragione, oggi la prima viene percepita sempre più lontana e la seconda è poco utilizzata.
Che ruolo hanno le famiglie? Spesso si scopre che i protagonisti degli episodi violento non sono figli di famiglie disagiate o vittime a loro volta di episodi di violenza…
Il disagio non conosce quartieri ma è dilagante perché ha oltrepassato l’origine psicologica assumendo proporzioni che appartengono ad una cultura, alla società. Negli ultimi anni la ricerca ha messo in luce la fondamentale importanza dell’ambiente nella regolazione del comportamento cellulare ponendo in secondo piano la genetica.
Tutti parlano di valori, dal mondo politico a quello religioso, dai serial in tv ai social network. In realtà i valori sembrano scomparsi. Da dove arriva la mancanza di valori?
L’assenza di valori deriva dalla mancanza di coesione sociale. Paradossalmente ci raccontiamo di essere sempre più connessi grazie alla tecnologia, in realtà siamo sempre più soli. In famiglia la comunicazione diventa evento raro, rubato tra una chat e l’altra. Talvolta i ragazzi si trovano a vivere con un solo genitore compresso tra lavoro e precarietà della vita.
I genitori sono in grado di capire le difficoltò dei loro figli?
La vicinanza fisica ed emotiva col figlio viene dimenticata come necessità, provocando un vuoto di inconoscibilità e aumentando una distanza che non è solo generazionale ma affettiva. I genitori stanno perdendo il gusto e quindi l’opportunità evolutiva di essere modelli sani ed affidabili per i loro figli. Raramente sono predisposti all’ascolto di un figlio che spesso non corrisponde alle aspettative di successo, raramente si fermano ad osservarlo con curiosità per capire ed accettare i timidi tentativi di manifestazione di un desiderio, di una fantasia o di una paura.
E la scuola?
Anche la seconda famiglia, la scuola, sembra aver dimenticato una base fondamentale su cui si fonda la conoscenza: la passione. Gli insegnanti devono avere il coraggio di recuperare dentro di loro la motivazione, l’amore per la materia per poter attrarre emotivamente i ragazzi e far sì che avvenga la trasmissione di sapere per contribuire alla formazione dell’identità. La letteratura ci aiuta da sempre in questo, nel trovare le parole giuste, profonde, ci aiuta ad uscire dal silenzio, dalla solitudine.
Che ruolo ha la tecnologia in tutto questo? Non c’è il rischio che tutto questo sviluppo tecnologico metta la violenza più a portata di mano?
Innanzitutto ricordiamoci che la violenza è nel nostro Dna. La violenza, come l’amore, fa parte della condizione umana. La tecnologia si frappone nell’incontro tra le persone, impedisce il processo di elaborazione, di vicinanza emotiva livellando espressioni e sfumature della comunicazione umana con faccette e whatsapp. La tecnologia è un catalizzatore di attenzione ‘verso il basso’, ci impedisce di guardare non solo l’altro che ho vicino, e quindi avviare un processo di rispecchiamento, ma il mondo in generale. Siamo in un’era di analfabeti affettivi dove facciamo sempre più fatica a porci in risonanza con l’altro quindi prevale necessariamente l’istinto che è innato in noi. Tenuto conto di ciò il passaggio dalla presa in giro alla violenza fisica e psicologica del bullismo, dal corteggiamento allo stupro, è breve.
Oggi esiste una categoria di giovani che non fanno nulla, non studiano né lavorano. Di chi è la colpa?
Ci lamentiamo in continuazione dei giovani che non hanno iniziativa, che sono passivi, depressi, scaricando a loro la responsabilità di farci ‘rinascere dalle ceneri’ ma del resto ciò che la società offre sono instabilità, mancanza di risposte, scenari apocalittici, sfiducia e spesso rifiuto del prossimo. L’unica certezza è la logica del consumo nascosta dalla velina della nostalgia del passato, dove gli aggettivi possessivi ‘mio, mia’ imperano: mio figlio, la mia ragazza, mia moglie diventano delle cose, delle proprietà, senza sentimenti, emozioni o intenzioni. A questo punto la reazione è tapparsi le orecchie con le cuffiette, anestetizzarsi assumendo alcol o droga, tagliarsi per provare a capire se sentiamo ancora qualcosa o se ci siamo sconnessi anche dal nostro corpo.
Esiste una soluzione?
La soluzione sta nell’educazione emotiva e ai sentimenti. Ironia della sorte, sembra che proprio dalla Silicon Valley, dai fondatori di grandi start-up che oggi hanno trenta, quarant’anni, arrivi un nuovo messaggio che invita alla coltivazione della consapevolezza: essa risponde non solo al bisogno di mitigare lo stress ma di avere un’esperienza di vita più profonda e piena di significato.
Anna Bianchini