Il covid ha insegnato a lei e alla sua famiglia il valore della libertà e la depressione della solitudine, ma la cosa che le più rimasta nel cuore sono la sensibilità e la professionalità del personale sanitario della Ulss 7.
Sisp e Usca, oltre a medici e infermieri, perché lei e sua figlia hanno avuto la fortuna di essere curate in casa.
Lei è Monica Dalla Via, 57enne di Zanè, che con il cuore in mano e le lacrime agli occhi ha definito “angeli” tutti i rappresentanti della sanità locale, che non l’hanno abbandonata un attimo.
“Ho deciso di raccontare la mia esperienza con il coronavirus perché non trovo giuste le accuse e le lamentele che continuo a sentire – ha sottolineato – Sento di gente che si lamenta perché devono attendere due o tre giorni l’esito dei tamponi, perché devono fare la fila. Persone abituate evidentemente a tutto e subito che secondo me non si rendono proprio conto di quello che sta succedendo e di quanto lavoro comporti per le strutture sanitarie. La gente non capisce che vengono effettuati migliaia di tamponi al giorno, pensano di esserci solo loro”.
Monica Dalla Via non sa come lei e sua figlia hanno predo il virus. Sa solo che si sono ritrovate chiuse in casa, isolate da marito e figli per circa un mese, con il terrore che la malattia peggiorasse e che si manifestassero quei sintomi che portano alla morte.
“Io sono malata da tempo, sono una di quelle che sarebbero potute morire con il covid che peggiorava un quadro clinico pregresso – ha raccontato – Ma io sapevo solo che non volevo morire. Per me, per i miei cari, per i nipotini. Volevo rimanere qui. La questione delle patologie pregresse non è una buona scusa per morire. Dico che di covid si muore, perché altrimenti uno potrebbe stare qui anche se ha altre patologie”.
Monica racconta di un’assistenza sanitaria impeccabile ed è proprio per raccontare della professionalità dei sui “angeli” che ha voluto rendere pubblica la sua storia.
Contattata due volte al giorno nella fase più critica e poi quotidianamente, in isolamento dal 18 ottobre al 18 novembre, non si è mai sentita trascurata da quella Sanità che tanti snobbano.
“Mia figlia è stata chiusa in una stanza 25 giorni, con i bambini e marito nel resto della casa, poi mi sono ammalata io. I medici sono sempre venuti a casa, hanno fatto tamponi a me e mio marito e ogni giorno ci chiamavano per vedere come stavamo – ha raccontato – Mio papà di 83 anni lo abbiamo tenuto a casa, perché ci hanno aiutato, ci hanno gestiti tutti a casa. Io soffro di altre patologie e il coronavirus è stato per me uno tsunami. Mi ha lasciato una stanchezza che non avevo mai provato. In famiglia non ci potevamo aiutare uno con l’altro per via della contaminazione. Gli “angeli” della sanità non ci hanno mai lasciati soli. Venivano qui bardati con tute ermetiche, sembravano astronauti. Stavano sicuramente scomodi ma emanavano umanità e professionalità. Avevamo il timore di essere additati come malati ‘di peste’, invece ci siamo sentiti al centro di tanta attenzione, con grande rispetto. Non abbiamo approfittato del Comune, che si era messo a disposizione per la spesa, perché abbiamo altri due figli che la facevano per noi”.
Ora Monica Dalla Via e la figlia sono ‘fuori dal tunnel’, ma il ricordo della 57enne è fresco: “Ho imparato ad apprezzare la libertà, che prima davo per scontata – ha concluso – Ho sofferto la solitudine. Ho cucito tanto, anche degli gnomi portafortuna. So che ci sono tante persone che vanno in giro anche se positivi, a loro dico state attenti, non sapete cosa rischiate”.
A.B.