È nato un nuovo mensile: PRISMAG. Edito dall’associazione del terzo settore TheWISe APS e gestito e diretto da under30, la testata «si occupa di parlare di un solo tema al mese, ma preso in tutte le sue varie sfaccettature. Non a caso il nostro motto è “tutti i colori della notizia”», spiega il suo direttore, Francesco Stati. «Cerchiamo di fare proprio come il prisma, solido che prende la luce e la spacchetta in vari colori. Abbiamo scelto il formato mensile perché vogliamo ridare ai nostri coetanei, per quanto possibile, il valore della profondità. Come approccio privilegiato usiamo lo slow journalism e i longform: articoli lunghi, dalle 3600 alle 10.000 battute, scritti per dare notizie approfondite senza rincorrere lo scoop. Per quello ci sono i quotidiani e le agenzie di stampa».

L’intento di Francesco e della sua squadra è quello di rendere le persone responsabili, facendo sì che si fermino il tempo giusto per leggere e assimilare le notizie: «È chiaro che siamo prede dell’infodemia, la sovrabbondanza di notizie e informazioni: noi cerchiamo di fare un po’ di “ordine” e diamo la possibilità al lettore di metabolizzare quanto letto, senza proporre immagini e reel che dopo cinque minuti vengono dimenticati dal pubblico per lasciare spazio a qualcosa di nuovo, scelto dall’algoritmo».

Fare tutto con le proprie forze in un settore in crisi come quello dell’editoria è complesso. Soprattutto per una redazione perlopiù sotto i trent’anni, in un Paese che, come denunciano nel loro primo numero “Sulla natalità”, è sempre più per vecchi. «È un grande salto nel vuoto. PRISMAG si regge sui risparmi di chi lo ha fondato, ragazzi che hanno rispettivamente ventinove, venticinque e ventidue anni, e sui lettori che comprano il prodotto editoriale. Sono quasi centocinquanta pagine al mese, stampate su carta ecologica certificata. Quasi un libro monotematico al mese! Ci tengo a precisare che l’associazione è non a scopo di lucro e che tutti i nostri redattori sono regolarmente retribuiti: tutto quello che guadagnamo lo investiamo nel progetto, senza dividendi. Siamo poi sempre alla ricerca di inserzionisti, fondamentali per sostenere ed espandere l’attività editoriale verso nuovi formati». Proprio in questi giorni è stato lanciato su Produzioni Dal Basso un crowdfunding tramite cui i lettori, facendo una donazione, sono ricompensati con gadget come tazze, magliette e matite, oltre che con abbonamenti online, cartacei e digitali: «Sull’informazione, specie quella libera, si deve investire. Noi, come altre realtà, generiamo valore sociale e il lettore deve capire che pagare dieci euro per centocinquanta pagine è poco più di quanto costa a noi produrre una singola copia. Purtroppo, il budget per la cultura è sempre limitato ed è più facile che le persone si abbonino a un servizio di streaming piuttosto che a una rivista: sono loro i nostri avversari sul mercato, non altri giornali. Siamo pur sempre parte dell’economia dell’attenzione, dove il bene scarso è proprio l’attenzione delle persone. Se vogliamo una società “sana”, è fondamentale che le realtà come la nostra possano sopravvivere e continuare a germogliare».

Perché investire sulla carta allora, dati i suoi costi? «Abbiamo deciso di utilizzare questo formato per due motivi. Il primo è il fattore tattile e, se vuoi, olfattivo-sensoriale, che niente come la carta stampata è in grado di offrire. Il volume, poi, è estremamente curato anche a livello grafico. Si può quasi dire che il testo diventi “solo” un contorno! Inoltre, riteniamo che nel caso si crei solo un prodotto digitale, sia ancor più difficile far capire alle persone il reale valore dell’informazione in esso contenuta. Il prodotto editoriale in sé e per sé, nell’epoca del web, è considerato di fatto gratis e, quindi, di scarso valore. Fare impresa nel campo editoriale in Italia, vuoi la scarsa qualità delle fonti di informazione più diffuse, vuoi la sfiducia dei lettori, è difficile. Figuriamoci fare una rivista solo in digitale! L’informazione ha un valore e l’estetica (e quindi la carta) ha il suo ruolo».

Nel giornalismo, secondo Stati, la responsabilità morale di chi scrive non deve mai mancare: «Il giornalismo è una professione di servizio pubblico. Io, come direttore responsabile e giornalista professionista, sento molta pressione: i miei redattori devono fare un prodotto che soddisfi me e io, a mia volta in quanto direttore, devo soddisfare i nostri lettori, che è la vera missione di qualsiasi giornale che si rispetti. Fortunatamente ho una squadra giovane e competente, sia di collaboratori che di giornalisti e poligrafici, che mi aiuta moltissimo in questo: abbiamo tutti le stesse ambizioni e obiettivi e puntiamo a fare la nostra parte».

Marco Capriglio

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