L’Ade per Tiziano non ha l’aspetto di una città in fiamme come di solito veniva raffigurato, ma nell’Orfeo e Euridice dipinto intorno al 1510 prende le forme di un altoforno affiancato da ruote idrauliche che ne azionano i mantici, simile a quelli che gli erano familiari nella zona di Pieve di Cadore, il suo paese natale. L’opera del maestro della pittura campeggia in una delle ricche sale del Palladio Museum di Vicenza, tra una enorme allegoria di Francesco Bassano, pergamene, riproduzioni di modellini, attrezzi di lavoro e pezzi di artigianato di pregio per raccontare l’importanza del fuoco dei forni e delle fucine per produrre mattoni, legna da carbone o fondere metalli. Al fermento di energie e di idee che fecero dell’entroterra della Repubblica dei Dogi lo scenario di un miracolo imprenditoriale senza pari è dedicata la mostra ‘Acqua, Terra, Fuoco. L’architettura industriale nel Veneto del Rinascimento’, in corso fino al 12 marzo.

L’acqua, in questo senso, con la rete di fiumi della zona, ha avuto un ruolo decisivo per una energia ‘green’ da utilizzare nel movimento di mulini e macchine della lavorazione proto-industriale di farina, pellami, carta, legno, metalli, lana e tessuti. Accanto ai mulini galleggianti di Verona di Bernardo Bellotto nel 1745 ecco la ‘Pianta Angelica’ di Vicenza disegnata nel 1580 da Giovanni Battista Pittoni in cui spiccano nei pressi dei ponti sui corsi d’acqua le ruote idrauliche degli opifici e degli alti mulini da seta. La città, a metà del Cinquecento, produceva più del 40 per cento di tutta la seta grezza del mondo con un centinaio di impianti idraulici per la sua torcitura ed esportava in tutta Europa tra le 18 e le 20 tonnellate all’anno tra prodotto grezzo e semilavorato. Un periodo d’oro che si concluse intorno al 1630.

La seta in Veneto si è continuata a produrre fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando vennero chiuse le ultime filande. Nella sala dedicata alla terra oggetti e disegni si illustrano la lavorazione dell’ argento e del caolino per la produzione della ceramica. Ma c’è spazio anche per i ciottoli bianchi del fiume Brenta che venivano polverizzati per uso industriale. “Le famiglie nobili che commerciavano in seta – osservano i curatori – scommisero su un’arte che fosse contemporanea, come innovazione e capacità di guardare al futuro. Colte e cosmopolite, decisero insieme di utilizzare la ricchezza della città per trasformarla da piccolo centro di provincia in qualcosa di più grande”. Una scommessa che plasmò anche gli edifici pubblici e le residenze nobiliari. Palladio seguì la discontinuità rispetto alla tradizione. Ai marmi preziosi e agli intonaci variopinti dei Palazzi del Canal Grande l’architetto padovano, morto a Vicenza nel 1580, preferì le costruzioni bianche realizzate con materiali low-cost pensando all’edificio “come un meccanismo in cui ogni parte era in proporzione alle altre, come una formula matematica tridimensionale capace di generare una inedita armonia”.

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