Mi presento: sono Matteo Lucio Maiolo, ho 38 anni e vengo dalla Calabria, precisamente da Stilo, dove ho vissuto fino all’età di 11 anni. La mia vita è sempre stata piena di emozioni, fin da bambino, quando a mia madre, appena nato, dissero che sarei morto, e dovettero mettermi in incubatrice per giorni: circa due mesi di sofferenze; pare che me la sia vista brutta, ma i medici, scampato il pericolo, dissero a mia madre che avevo la pelle dura.

Passato quel periodo, ho avuto un’infanzia felice. Ero una scimmietta, mi arrampicavo ovunque, procurando un costante batticuore a mia madre. Da piccolo avevo tantissimi amici che venivano da me a giocare in giardino o a guardare i cartoni di Holly e Benji, per poi imitarne le prodezze col pallone. Ci sentivamo degli eroi.

Ma all’età di 11 anni mi trasferii al Nord con la mia famiglia, lasciando nonni, zii, amici, luoghi cari… Praticamente tutti i miei affetti. Fu un trauma che non accettai immediatamente: il clima, gli ambienti… Per me era tutto strano. Non fui accolto subito bene, perché alcuni mi vedevano come uno straniero, vuoi per l’accento, vuoi per il carattere esuberante, vuoi per ignoranza, ma per fortuna questa situazione durò poco e ricevetti tante soddisfazioni, tanti nuovi amici. Il mio cuore di bimbo, però, era giù in Calabria.

Gli anni trascorsero felici fino alla separazione dei miei, che fu un duro colpo, anche per la malattia di mamma, (esaurimento nervoso), dovuta all’abbandono. E poi la separazione da mio fratello, che dovette andare dai nonni perché la mamma non poteva stare dietro a entrambi. Io avevo appena 16 anni, l’età dello sviluppo, ma anche dei sogni. Sogni che furono infranti e dovetti cambiare vita. Imparai a cucinare per me e mamma, e a fare le pulizie.

Mi ricordo che un Natale eravamo solo io e mia madre, e cucinai il primo pollo arrosto. Lei non voleva alzarsi dal letto, e la presi di peso per portarla in cucina, dove c’era la tavola imbandita e colorata. Eravamo solo io e lei, anche se i nonni e gli zii ci sono sempre stati vicini.

Dopo tre anni, i miei tornarono insieme, ma poi mio padre ci lasciò di nuovo. Per rispetto nei suoi confronti tralascio i particolari (non sta a me giudicare). In compenso, avevo nuovamente accanto mio fratello. Mia madre, però, ebbe un altro tracollo, delusa, abbandonata, tradita. Io stesso mi sentii abbandonato e ferito dopo che avevo perdonato. La mia fiducia svanì di colpo verso tutti: se non puoi fidarti di un genitore, di chi ti fidi?

Col tempo, tutte queste sofferenze mi hanno aiutato a capire meglio gli altri, a non giudicare, ad aiutare donne abbandonate, figli abbandonati. Feci della mia esperienza di vita una sorta di missione per chi non era riuscito a superare certi traumi, decidendo di dedicarmi all’associazionismo, al volontariato. E siccome non mi bastava, scelsi di entrare nel vivo delle persone, facendo l’operatore socio-sanitario. Sì, perché essere operatore mi permette di ascoltare, di osservare da vicino, e tutto ciò mi gratifica.

Entrai nell’ambiente e vidi che tante cose non funzionavano: troppe ingiustizie tra colleghi, contratti precari, eccetera. Ma un bel giorno – e arrivo a oggi – ho deciso di aiutare la mia categoria, avviando l’associazionenazionale Angeli Chiamati Oss, la prima solamente per operatori socio-sanitari e per le persone in difficoltà. Perché se un oss è giusto che aiuti, deve pure essere messo in condizione di lavorare bene. In questi giorni, per completare insieme ai soci le ultime faccende burocratiche, sono rimasto a casa, anche perché tanti colleghi hanno bisogno di ascolto e di aiuto, ed è una missione che svolgo volentieri. Perché solo se hai sofferto, puoi capire i bisogni di una persona e sapere che è giusto aiutarla. Desidero che la mia storia sia condivisa e sia di esempio per chi sta male.

Matteo Lucio Maiolo

fonte NurseTimes – Giornale di informazione Sanitaria

 

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