Ci sono cose che ti trasformano in ciò che non sei proprio per la loro capacità di generare una reazione opposta a quella desiderata. Una di queste è la sentenza del Tar dell’Emilia Romagna che, lo scorso 12 febbraio, ha annullato la delibera del consiglio d’istituto di una scuola bolognese che nel 2015 aveva autorizzato le benedizioni pasquali all’interno dell’edificio, in orario extrascolastico e in maniera assolutamente facoltativa. Roba da farti venire voglia di diventare cattolico praticante anche se non fai la comunione da una vita e in chiesa ci entri solo per battesimi, matrimoni e funerali.
Tutto nasce dalla denuncia di un gruppo di insegnanti della stessa scuola: “Con l’accoglimento del nostro ricorso – dichiara al Corriere di Bologna una di loro, Monica Fontanelli – si è affermato un principio importantissimo. A scuola si insegna a vivere insieme, si fa cultura. Le pratiche religiose restano fuori. È stato affermato un principio della Costituzione”. Virginio Merola, sindaco di Bologna, eccepisce che quello sulle benedizioni a scuola “è un dibattito civico e profondamente politico sulla convivenza nella nostra città e non si affronta a carte bollate”. Aggiungendo che laicità dello Stato “non significa precludere a chi non lo impone, ma lo chiede in modo volontario, l’espressione della propria fede insieme agli altri”.
D’accordo con i ricorrenti è Mirco Pieralisi, consigliere comunale bolognese di Sel: “L’insegnamento della religione cattolica all’interno dell’orario scolastico che scompone sezioni e alunni, già a partire dai 3 anni, sulla base delle scelte ideali o confessionali degli adulti costituisce già un limite alla laicità della scuola”. L’Uaar, Unione degli atei e degli agnostici razionalisti, per voce di Roberto Grendene, coordinatore del circolo del capoluogo emiliano, afferma che la religione può entrare nelle scuole ma, “al pari di tutti gli altri fenomeni, non come attività di culto”. A ritenere “estremamente equilibrata” la sentenza del Tribunale amministrativo regionale, su il manifestoonline del 13 febbraio, è Giovanni Cimbalo, professore di diritto ecclesiastico dell’Università di Bologna. Il docente precisa che “la benedizione è un atto di dedicazione di un luogo a un Dio, è atto di culto. Chi lo compie intende delimitare un luogo e porlo sotto la protezione di un Dio. Considerare la benedizione pasquale una mera tradizione ne sminuisce il significato e non concorre a coglierne la portata e l’importanza religiosa”. Sotto il profilo giuridico, rinviene la legittimità della sentenza nell’articolo 19 della Costituzione: “Il principio di laicità esige che la scuola sia luogo di cultura e di confronto tra le differenti appartenenze religiose, che si faccia carico di affrontare queste tematiche con il contraddittorio e il confronto tra le diverse opzioni. Il rito invece è esecuzione univoca, unilaterale, indiscutibile di un atto devozionale che o si condivide o non si condivide”. Sventolando anche l’articolo 9 del concordato tra Stato e Chiesa, ricorda che “l’insegnamento della religione deve avvenire come fatto culturale e non rituale”.
Ma cosa dice realmente la Costituzione? “Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa– si legge all’articolo 19 – in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. E, pensate un po’, proprio Cimbalo,nelle dispense delle sue lezioni, reperibili online, fa presente che l’unico limite è dato dagli atti contrari al buon costume: “Sono da considerarsi tali quelli che ledono la morale sessuale. Possono essere qualificati tali anche quelli che ledono la salute fisica e psichica delle persone”, aggiunge, con riferimento alle confessioni che utilizzano tecniche di manipolazione della personalità. Secondo il professore, “la libertà religiosa è una caratteristica fondamentale del nostro ordinamento e, pertanto, non è negoziabile. Le limitazioni di tale libertà costituiscono unvulnus (una ferita, ndr) ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale”. Arriva addirittura a insegnare, ai propri studenti, che “ogni Stato può liberamente scegliere la propria religione e che la libertà religiosa è assicurata a tutti”.
E allora perché legittimare questa discriminazione ai danni dei cattolici? Perché tanta intolleranza proprio da chi (è il caso di Sel, dell’Uaar, delle insegnanti della scuola in oggetto) predica la libertà, evidentemente solo a parole? O dei bambini che con i genitori partecipano alla benedizione di una scuola compiono atti che ledono la morale sessuale o la salute fisica e psichica delle persone? Qualcuno obietterà che imporre una fede religiosa a dei minorenni, soprattutto se in tenera età, è una manipolazione. Ma alla stessa stregua lo è anche mandarli a scuola contro la loro volontà, obbligarli a mangiare con le posate, impedire che guardino la televisione o stiano su internet dalla mattina alla sera. Perché, lo si voglia o no, anche queste cose sono mere convenzioni dettate dalla cultura, dalla tradizione, che vengono tramandate in Italia, e non solo, da centinaia di anni. E un atto di culto come una benedizione, per quanto unilaterale, è sempre un atto profondamente spirituale che non ne esclude altri operati da chi professa religioni diverse. Non delimita un luogo né fisicamente, né giuridicamente.
Pertanto, non ha nulla a che vedere con le sentenze estemporanee di giudici che, loro sì, approfittando del proprio potere, costringono unilateralmente delle persone, limitandone la libertà di culto, nonostante sia sancita dalla Costituzione. La principale fonte di legge del Paese. Non è la benedizione di una scuola a minacciare la libertà degli individui. Lo sono semmai simili giudici, con le loro decisioni. Talmente soffocanti da spingere un laico come il sottoscritto a prendere posizione. Ora che ci penso, vado a farmi la comunione.
Fabio Bonasera