di Fabrizio Carta

Aprile è sempre periodo di bilanci. Ma quest’anno esperti ed analisti hanno dovuto misurare indici assolutamente fuori dalla norma. Per dieci interi mesi del 2020 le nostre aziende hanno dovuto affrontare i pesanti ed imprevisti effetti di un fattore assolutamente nuovo, una pandemia mondiale.

L’edizione 2021 del rapporto sulla competitività dei settori produttivi, pubblicato dall’Istat nei giorni scorsi, ha fornito un quadro informativo dettagliato degli effetti economici della pandemia sulla struttura, la performance e la dinamica del sistema produttivo italiano.

Come facilmente immaginabile la crisi pandemica ha investito e travolto tutti i settori dell’economia italiana, anche se in modo eterogeneo. Principalmente colpite le imprese di piccola e piccolissima dimensione, quelle che costituiscono lo scheletro del tessuto economico italiano e capillarmente diffuse anche sul nostro territorio; proprio quelle piccole aziende con pochi dipendenti che però fanno girare l’economia. Il 45% delle imprese viene indicato come strutturalmente a rischio.

Gli effetti più severi si sono manifestati in particolare nei comparti legati al turismo, dove gli arrivi totali sono diminuiti addirittura del 59,2% in totale. Poco rosee le prospettive di ripresa nel primo semestre 2021: solo un’impresa su cinque prevede di tornare ad una normale prosecuzione della propria attività.

Il crollo della liquidità ha generato una corsa al credito bancario, spinta dalle strategie governative di finanziamento alle aziende. Ma il rischio maggiore segnalato per i prossimi mesi è l’insolvenza di molte imprese nel momento in cui dovranno iniziare a restituire i prestiti, con una già prevedibile tensione sui prossimi bilanci delle banche.

La crisi tende ad accentuare le divisioni sul territorio. Colpisce in special modo in modo grave le zone ad alta vocazione turistica. Vittime del virus però non sono solo molte regioni del sud, le cui economie sono tradizionalmente legate al turismo, ma anche all’interno delle regioni settentrionali più solide troviamo delle realtà fragili. Tutti i paesi di montagna che hanno affrontato un inverno con le stazioni sciistiche chiuse, come la nostra Asiago, ed anche i paesi della costa ad alta vocazione turistica, Jesolo tra i tanti, sono segnalati in sofferenza.

Il fatturato del terziario è diminuito del 12,1%, ma in alcuni particolari settori, come alloggio e ristorazione, è dimezzato; le agenzie di viaggio ed il trasporto aereo, hanno subito un crollo addirittura superiore al 60%.

Il problema, dovete tener conto, che non è solo degli altri. La crisi economica, senza un volano di ripresa, impatta in maniera grave sul mercato occupazionale, che a noi tutti è molto vicino. Se fino ad oggi il blocco dei licenziamenti e la cassa integrazione ne hanno attutito gli impatti, la crisi occupazionale è un mostro che si nasconde sempre dietro l’angolo. L’unità di misura che ne coglie l’essenza è rappresentata dal numero delle ore lavorate, che lo scorso anno ha subito una vera e propria caduta record.

Anche lo sport è in ginocchio per il covid, e non stiamo parlando di settori marginali o poco importanti, come qualche politico ha voluto dichiarare qualche giorno fa. Il 61% delle associazioni sportive italiane ha registrato perdite superiori al 50% nel 2020, e più del 10% ha già dichiarato che non riaprirà più dopo la pandemia. Parliamo sempre di aziende che direttamente o indirettamente occupano persone, ed un’azienda in meno significa posti di lavoro in meno.

Come ha scritto anche l’Ocse nella scheda sull’Italia del report ‘Going for Growth 2021. Shaping a Vibrant Recovery’. “la crisi rischia di far calare ulteriormente i tassi di occupazione, già bassi, e di rafforzare le diseguaglianze, soprattutto per chi ha uno scarso livello di competenze e un basso livello di formazione continua”.

Sono incontrollabili reazioni a catena, che si riflettono e si rifletteranno ancora per anni sulle nostre vite. La pandemia ha introdotto nella nostra routine quotidiana tante nuove abitudini, lavorare da casa in smart working, passare ancora più ore sui nostri tablet ed I-pad, acquistare da casa qualsiasi cosa. L’e-commerce registra il +78%. Ma quanti negozi chiuderanno? Siamo sicuri che questa sia la strada giusta? È questo il futuro che abbiamo scelto?

Io voglio credere di no. Voglio sperare che ancora in tanti torneranno ad apprezzare il salumiere di fiducia, la prova della blusa nel camerino del negozio, o i tanti Bepi che ti vendono la frutta in piazza. Non voglio pensare ad una società così anonima, sordida e priva di anima, come quella che sta emergendo da questa pandemia.

Io spero che passi presto questo torpore dell’anima. Solleviamo le nostre preziose natiche dai divani e corriamo a riprenderci le strade!

Ad maiora!

Fabrizio Carta

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