a cura di Eloisa Gallinaro

«Non ho contato i colpi: cantavo in nome della donna, in nome della vita». Roya Heshmati (nella foto), 33 anni, descrive così sulla sua pagina facebook gli interminabili minuti in cui sulla sua schiena, sui glutei, sulle gambe si abbattevano le frustate comminate da un tribunale iraniano come punizione per non aver indossato l’hijab, il velo islamico: 74 staffilate inflitte con un nerbo di cuoio nero che l’ufficiale incaricato di eseguire la pena «si è avvolto due volte attorno alla mano» perché la presa fosse più sicura, più ferma, più dolorosa.

Era il 3 gennaio, lei non ha pianto e non ha urlato, si è concentrata su quella stanza, «una camera di tortura medievale», per raccontare al mondo che cosa accade nella repubblica islamica, nella migliore delle ipotesi, alle sventurate che rivendicano il diritto elementare di scegliere che cosa indossare. «La porta di ferro si è aperta cigolando, rivelando una stanza con pareti di cemento. In fondo un letto dotato di manette e fasce di ferro saldate su entrambi i lati. Al centro della stanza un dispositivo di ferro simile a un grande cavalletto, completo di alloggiamenti per le manette e una legatura di ferro arrugginito al centro». Su quel letto, nella prima sezione della Procura del settimo distretto a Teheran, Roya è stata fatta sdraiare dopo essere stata ammanettata e dopo che una donna in chador, una dipendente del tribunale, le ha messo a forza sulla testa quell’hijab che neppure per sottoporsi alle frustate aveva voluto indossare. E proprio per questo ostinato rifiuto ha rischiato una nuova condanna ad altre 74 frustate.

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