l’editoriale di Nicola Perrone
In questi ultimi giorni sono stato colpito da due immagini: il 91enne Rupert Murdoch in costume da bagno con la sua ultima fiamma, molto più giovane, mano nella mano; la premier neozelandese Jacinda Ardern, 42 anni, che dopo quattro anni e mezzo di mandato lascia il potere perché esausta, perché vuol vivere una vita diversa. Da una parte l’immagine dell’eterno potere maschile, che non si arrende mai, che vuol sempre apparire attivo, immortale; dall’altra il potere al femminile, capace di dire basta e senza traumi farsi da parte.
Anche in Italia, dopo decenni e decenni, abbiamo una donna a Palazzo Chigi. Giorgia Meloni dopo anni di gavetta e militanza politica è riuscita a ‘domare’ un partito dove hanno sempre prevalso i muscoli. Stavolta la forza di Giorgia ha prevalso in casa propria ed anche al Governo, dove è circondata da troppi maschietti.
Tornando alla rinuncia della Ardern, c’è il coraggio di dire di non essere più all’altezza del compito, di non aver più l’energia necessaria per fronteggiare e risolvere i problemi dei suoi connazionali. Di qui il passo indietro o di lato, il potere lasciato a disposizione degli altri.
Anche nella Chiesa, dopo la morte del Papa emerito, Papa Francesco negli ultimi discorsi si è soffermato sull’aspetto dell’energia, della capacità di reggere, facendo anche capire che in caso di impedimento si sarebbe anche lui dimesso. Ma per quanto riguarda invece l’universo maschile si fa sempre fatica a ricordare dimissioni rispetto invece alla lotta per mantenere qualsiasi posto o posizione.
Per quanto riguarda il potere gestito dalle donne, invece, forse nei prossimi anni quanto accaduto in Nuova Zelanda potrebbe fare scuola, con l’entrata in campo di tanti nuovi giovani leader, donne e uomini, capaci di essere loro a decidere tempi e modi di gestire gli incarichi, senza costrizioni. Liberi di dare il massimo e liberi di mollare il potere, senza inutili pretese di eternità.
Ecco, proprio a proposito di eternità mi vien da pensare a quei tanti supermiliardari che in tutto il mondo stanno investendo immense fortune per scoprire l’elisir contro la morte, per una vita senza scadenza. Non è questione scollegata dalla realtà di tutti i giorni: le cronache da tutto il mondo, soprattutto quelle che arrivano dai Paesi poveri, ci narrano di compravendita di organi, di uccisioni per rubare il ‘pezzo’ che occorre, di sparizioni e riapparizioni di persone che si ritrovano senza qualche parte del loro corpo.
Strettamente collegato a questo bisogno di immortalità è la voglia di accumulare ricchezza per sempre, proprio per garantirsi nel prossimo futuro il possibile elisir per non morire. Perché il discorso risulti più chiaro, è evidente che il miliardario, anche di fronte a possibili nuove malattie, possa sempre contare sulla migliore assistenza sanitaria, la migliore ricerca, i migliori prodotti. Proprio per questo è importante che la politica, che dovrebbe essere al servizio dei tanti e non dei pochi, a proposito dello sviluppo tecnologico, – quello finanziato per allungare la vita o combattere le malattie – faccia attenzione alla sua democratizzazione, perché nessuna classe di potenti ne possa beneficiare lasciando gli avanzi a tutti gli altri.
E non vale il discorso che se un privato vuol godere privatamente di questi benefici lo Stato deve starsene alla larga. A parte la miseria di un simile ragionamento, quando si parla della vita delle persone l’accesso alle cure, anche le migliori, deve necessariamente essere pubblico. Altrimenti si darà per scontato che il futuro apparterrà solo a chi avrà i mezzi per vivere in eterno, che questo sia alla fine un diritto di nascita. Se l’innovazione tecnologia che punta ad allungare la vita sarà democraticamente determinata ad essere un bene sociale, qualunque beneficio dovrà ripercuotersi sul bene comune. Di qui l’invito a riflettere su quanto affermava il nostro saggio Stanislaw Jerzy Lec: “Anche l’anima, ogni tanto, deve stare a dieta”.