Berlino, afoso luglio 2011. Tre giorni improvvisati per visitare la città . Mi avevano detto che Berlino era famosa anche per lo zoo, ma l’idea di pagare per vedere soffrire gli animali di certo non faceva parte del mio programma di viaggio.
Dopo due giorni di tour cittadino, senza neanche accorgermene mi sono ritrovata proprio in zona Berliner zoo. Sentivo da fuori l’odore forte e quell’insieme di suoni che non ti fanno distinguere nessuna razza, ma, mescolandosi fra loro, danno vita ad un costante identico lamento. Sentivo che dovevo entrare per documentare.

 


Berlino, lo zoo. Temperatura da record: 40 gradi. I Berlinesi sudavano nei metrò, per strada, anche all’ombra di quel poco verde che si trova lungo la Sprea. Morivo di caldo anche io lo giuro, non riuscivo a respirare, un senso di pesantezza allo stomaco, la testa confusa ed un pensiero costante.
Entrare o non entrare?
Documentare o non documentare?

Entrai e ciò che mi apparve superò persino la mia immaginazione.
Leoni e tigri senza più l’istinto di ruggire ingabbiate sotto lo sguardo incredulo di bambini infelici e consapevoli, più degli adulti che li avevano accompagnati; elefanti che tentavano di trovare riparo dal caldo in fangose pozzanghere improvvisate, foche impaurite, lupi rintanati in grotte improvvisate. Giraffe confuse, ippopotami sopiti dal caldo, stesi per terra da sembrare morti.
E poi loro, gli orsi polari a cercare ristoro in improvvisati stagni di acqua tiepida e lui, il panda immobile, quasi finto. Quel panda che nell’immaginario collettivo gioca, salta felice era lì sdraiato. Non muoveva un muscolo. Ho provato a chiamarlo, a solleticarlo con un ramoscello, volevo capire. Ma da capire c’era gran poco e il panda faceva bene ad ignorarmi.
Pensavo agli animali, pensavo ai bambini. Prima dell’avvento di internet per noi era impossibile vedere un leone, un elefante. Ora con un click i nostri bambini possono arrivare ovunque. Nella savana, nella giungla, al polo…
Forse dovremmo noi adulti, male educati, insegnare ai bambini, futuro di questo pianeta, che se si amano gli animali bisogna lasciarli vivere nel loro habitat naturale.
Perché l’amore non deve produrre sofferenza. Né quando si tratta di umani, né quando si tratta di animali.
Il pensiero era buono, ma non bastò a zittire la mia coscienza di adulto. Abbassai lo sguardo per la vergogna, buttai il ramoscello e mi avviai di corsa verso l’uscita. Fu lì che incontrai la fossa del gorilla pensante. Così simile all’uomo e per questo così ancora più difficile da sopportare. Il gorilla seduto a testa bassa come si siede chi sta riflettendo, soffrendo o semplicemente arrendendosi.
Il caldo non pesava più mentre uscivo dallo zoo di Berlino, ma l’imbarazzante consapevolezza di appartenere a quel genere “umano” capace di tanta crudeltà pesava più di tutte le calure.
Pubblico solo una foto, che penso parli da sola.

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