“Purtroppo noi siamo il Paese del ‘dopo’ e a poco servono gli interventi sporadici o una tantum, qui è necessario ricreare la giusta direzione nello sviluppo e nella crescita, altrimenti questi gesti estremi li vedremo sempre di più nel quotidiano, come già stanno testimoniando i frequentissimi casi di cronaca”. Così la psicologa e psicoterapeuta Maura Manca, presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza, intervistata dalla Dire in merito alla vicenda della piccola Elena Del Pozzo, la bambina di quasi 5 anni uccisa dalla madre a Mascalucia, nel Catanese.

“Ci sono tante variabili- ha proseguito Manca- che fanno pensare in maniera chiara ed evidente che ci sia una pianificazione anche piuttosto lucida e coerente; l’esempio è il tentativo di depistaggio subito dopo l’omicidio, un tentativo peraltro pertinente che si riferiva ad un qualcosa di reale. Questa è lucidità, nonostante ci sia un movimento interno obiettivamente non appropriato: la signora in quel momento aveva già ucciso la bambina e subito dopo aveva la calma e la tranquillità di poter inscenare tutto questo.
Prima di parlare di ‘raptus’ bisogna sempre prima analizzare il contesto, insomma, perché è quello a fare la differenza”.

Dall’omicidio del piccolo Samuele a Cogne a quello di Loris a Santa Croce Camerina, nel Ragusano, fino alla recente morte di Elena, intanto, in vent’anni sono oltre 480 i bambini morti in Italia per mano dei genitori. C’è un filo comune in queste vicende oppure ognuna è una storia a sé?

“Sono numeri che fanno riflettere, la cosa importante da sottolineare è che quando si arriva a commettere un atto così estremo ci sono comunque delle condizioni pregresse. Si tratta di atti che maturano all’interno di specifici contesti e dipendono dall’insieme di fattori sia interni sia individuali, per esempio legati alla personalità, alle distorsioni cognitive o alle problematiche non elaborate. L’interazione di questi fattori porta purtroppo a degli esiti, come in questi casi così macroscopici e assurdi, che in genere vengono definiti gesti ‘folli’ perché è un qualcosa che non riusciamo a concepire. Se noi vogliamo prevenire questo tipo di atrocità dobbiamo lavorare anche e soprattutto sul ‘prima’ e non sul ‘dopo’, perché in tanti casi c’erano dei segnali che non andavano bene ma che purtroppo, molte volte, sfuggono ad un occhio inesperto. Tornando alla vicenda della piccola Elena ho sentito le maestre provare a darsi delle colpe, ‘forse potevamo accorgercene’, hanno detto, ma in tante situazioni la distorsione mentale e le problematiche psico-patologiche non possono essere lette da chi non si occupa di queste tematiche. Ma gli esperti ci sono e la rete si può costruire, bisogna solo cercare di intercettare prima e non dopo le segnalazioni, altrimenti si arriva a commettere gesti estremi che sono la somma di tanti segnali quotidiani”.

Delle 268 vittime di figlicidio tra il 2010 e oggi, 151 sono maschi (il 56,8%) e 117 le femmine (il 43,7%). Nella maggior parte dei casi l’autore è il padre, ma le madri sono le autrici prevalenti della quasi totalità degli infanticidi che riguardano la fascia d’età 0-5 anni. Ci può commentare questi due aspetti?

“Per dare un’interpretazione bisogna contestualizzare sempre il gesto e capire quello che c’è sotto, sono situazioni tutte differenti tra loro ma la linea comune è una distorsione dell’interpretazione della realtà. In molti casi c’è una ‘non accettazione’ di un qualcosa, che sia una relazione o una problematica, per cui si tende a pensare di non riuscire a trovare un’altra soluzione o di non saper gestire quella condizione in un altro modo. Ed è questo che dobbiamo evitare, perché è proprio quella la fase più critica. Ci sono condizioni in cui il bambino non è visto come tale ma come un ‘oggetto’ oppure, come nel caso di Elena, l’esigenza del bambino viene accantonata perché c’è l’esigenza del genitore, che pensa ‘io non tollero questo’ oppure ‘io non accetto che me lo portino via’. Nel momento in cui si elimina l’aspetto umano, quindi, il bambino diventa appunto un oggetto che posso spostare, mettere o togliere, ed è lì che si crea già una distorsione. Quando sentiamo parole del genere devono scattare i campanelli di allarme”. – Parlando dei moventi, oltre un terzo dei figlicidi (il 34,3%) è attribuibile ad un disturbo psichico dell’autore. Quanto conta però anche il concetto di ‘possesso’ in queste vicende? E quanto quello della gelosia, soprattutto oggi, in un’epoca social, dove è possibile ‘spiarsi’ di continuo? “Conta tanto, ma quella gelosia è in termini di ‘possesso’. Questo vale anche per le coppie, in questi mesi e anni è capitato tante volte che uomini o mariti abbiano ucciso l’intero nucleo familiare. Il problema è sempre lo stesso: ‘Voi siete miei e non accetto che ci sia uno spazio altro’, c’è quindi la paura che scatta nel momento in cui io posso venire escluso e messo da parte. Non si accetta o tollera l’idea di essere ‘sostituiti’ e quando accade non penso più e lo agisco. Le chiusure fanno male, ma come si gestisce la sofferenza? Quando parlo di distorsione da un punto di vista cognitivo e di non regolazione delle emozioni, allora, mi riferisco proprio a questo, ad una realtà che è una ‘mia realtà’ e che mi porta poi ad agire. Ma questa condizione del possesso noi la troviamo fin dai primi innamoramenti durante l’adolescenza, ed è lì che dobbiamo andare a sradicare questo concetto. Se non lavoriamo in questo senso avremo sempre più ‘agiti’ e sempre più condizioni estreme, a maggior ragione in un epoca anche social che tende a estremizzare e polarizzare tutto”.

Ad impressionare è che molti figlicidi siano premeditati…

“Bisogna sottolineare questo concetto con un evidenziatore, perché troppo spesso sentiamo dire ‘ha agito in preda ad un raptus’, ma il fatto che in quel momento si sia raggiunto un picco emotivo, la famosa ‘goccia che ha fatto traboccare il vaso’, non significa che quello sia stato il ‘raptus del momento’, attenzione a questo. Anche chi ha un disturbo di personalità o una determinata distorsione dal punto di vista cognitivo ha comunque la lucidità di agire e la capacità di intendere e di volere, nonostante ci sia un filtro sbagliato. Ripeto: attenzione ad associare queste due cose, altrimenti rischiamo di non comprendere ma di andare quasi a giustificare determinati gesti. Il nostro lavoro consiste nel comprendere ciò che scatta nella testa per avere chiaro quello che è successo anche in termini di studio, di casistica e quindi di prevenzione”.

Secondo lei, oggi più che mai, serve una nuova educazione dei sentimenti oppure alcuni tragici episodi sono ineluttabili e si ripeteranno sempre?

Serve una rieducazione sotto tantissimi punti di vista e c’è un sistema che va modificato. Qui stiamo parlando di figlicidi, ma esistono anche figli che uccidono i genitori, come accaduto ieri a Napoli, e tutta una serie di maltrattamenti e violenze intrafamiliari. Dobbiamo creare una rete sociale e rinforzare il sistema degli assistenti sociali, ma soprattutto quello degli educatori, che sono fondamentali. Noi psicologi, infatti, molto spesso interveniamo quando il sintomo è già manifesto ed evidente, mentre serve ricreare un’assistenza dal punto di vista sociale, perché quando si chiede aiuto e non c’è il personale competente, questo estremizza i sintomi e crea una condizione che accelera e amplifica i processi. Il concetto di ‘possesso’ dell’altro, non solo nei fidanzamenti ma anche nelle amicizie, è presente fin dai 12-13 anni. Allora dopo non ci meravigliamo se questo è il seme che si portano dentro e che coltivano nel corso degli anni”.

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