Lo Stato italiano vuole dei cittadini ignoranti. Unico modo per aggirare il principio di democrazia indiretta («la sovranità appartiene al popolo») sancito dalla Costituzione, facendo calare sulla testa degli elettori ogni tipo di decisione. A certificare che, quella messa in atto dalle istituzioni, è una strategia condotta scientemente e scientificamente sono i dati Eurostat sulla spesa annua per l’istruzione. Con l’Italia collocata stabilmente agli ultimi posti dal 2011.
Gli ultimi dati Eurostat, aggiornati il 3 settembre scorso, risalgono al 2016 e parlano di una spesa annua in istruzione, da parte di Roma, di 65,6 miliardi di euro, pari al 3,9% del Pil. Quintultima tra i 28 Paesi dell’Unione europea, la cui media è del 4,7%, leggermente in discesa rispetto al 2008, quando era assestata al 4,9%. Senza tralasciare che, già prima della crisi economica del 2008, l’Italia si trovava nella parte destra della classifica.
Ai fini di un confronto attendibile con gli altri Stati comunitari, proprio la percentuale di spesa pubblica in educazione in rapporto al prodotto interno lordo è ritenuta da Eurostat uno dei dati più attendibili. Questo rapporto indica quanto della produzione economica viene speso in istruzione, a tutti i livelli, dalla scuola per l’infanzia all’università.
Dal 2008 al 2016, questa voce di spesa, nella penisola, è scesa da 72 miliardi annui a 65,6. È vero che, se si considera la spesa rispetto al numero di studenti (calcolata dall’Ocse), dopo il 2012 si è registrato un incremento. Ma è stato inferiore a quello di grandi realtà continentali come Francia e Germania. Secondo l’Ocse (dato aggiornato allo scorso 12 dicembre) l’Italia nel 2015 ha speso per ogni studente 8.996,3 dollari americani. La Francia 9.897,2, la Germania 10.963,4.
Nel periodo preso in considerazione, Berlino e Parigi hanno mantenuto pressoché stabile la quota di Pil destinata all’istruzione, incrementando di fatto la spesa. La Francia, per mantenere il suo 5,4%, ha aumentato la spesa da 107 miliardi nel 2008 a circa 120 nel 2016. La Germania, sempre secondo Eurostat, è passata da circa 100 miliardi (3,9% del Pil) a oltre 132 (4,2%).
Negli altri maggiori Paesi del Vecchio continente la quota di Pil destinata all’istruzione si è ridotta. Nel Regno Unitoè passata da oltre il 6% negli anni tra 2008 e 2010 al 4,7% del 2016. In Italia il decremento è avvenuto soprattutto tra il 2009 e il 2011, quando è passata dal 4,6% del Pil al 4,1%. Da oltre 70 miliardi di euro a circa 65. Negli anni successivi la situazione si è semplicemente stabilizzata.
Un altro indicatore utile a comprendere il fenomeno è la quota di spesa pubblica destinata all’educazione. In Italia viene stanziato soltanto il 7,9%. In Europa, nei 15 anni compresi tra il 2002 e il 2016, la percentuale di spesa pubblica rispetto al Pil è aumentata di 2,7 punti percentuali. Un incremento che Eurostat imputa soprattutto all’aumento delle spese per la sanità e la protezione sociale. In parte probabilmente come conseguenza della crisi economica, in parte per il progressivo invecchiamento della popolazione. In questo contesto, si è tuttavia sgonfiata la quota di spesa destinata all’istruzione.
Una regola che vale per tutti i maggiori Paesi europei ad eccezione della Germania. La Gran Bretagna è passata da oltre il 13% a circa l’11%. L’Italia, che già spendeva meno di un decimo delle risorse in istruzione, a partire dal 2012 si è attestata attorno alla soglia dell’8%. Un dato molto più basso della media degli altri partner europei.
Proprio il contenimento della spesa pubblica è stato il vero mantra degli ultimi 11 anni. L’austerità di fatto imposta da Bruxelles ha condizionato le politiche economiche e finanziarie di tutti i Paesi comunitari. Ma, come dicono chiaramente le statistiche, l’Italia della Seconda Repubblica non ha mai brillato per gli investimenti nell’educazione. E negli anni della crisi ha accentuato il suo ritardo. Se si aggiunge che gli insegnanti dello Stivale, a parità di titolo di studio, sono tra i dipendenti pubblici quelli meno pagati, venendo privati perfino dei buoni pasto, è chiaro quanta poca importanza diano le istituzioni all’istruzione e, quindi, alla cultura e alla conoscenza. Troppo scomode da gestire se lo scopo è di fare i propri interessi, anziché quelli della collettività.
P.V.