Le cosiddette pensioni baby “costano alle casse dello Stato circa 7 miliardi di euro all’anno (pari allo 0,4 per cento del Pil nazionale), lo stesso importo previsto quest’anno per il reddito/pensione di cittadinanza e superiore di quasi 2 miliardi della spesa necessaria nel 2020 per pagare gli assegni pensionistici a coloro che beneficeranno di quota 100. Lo afferma l’Ufficio studi della Cgia, analizzando dati Inps.

“Il termine baby pensionati è ovviamente informale, non ha alcun fondamento legislativo e abbiamo deciso di racchiudere in questa categoria – afferma il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo – coloro che hanno lasciato il lavoro prima della fine del 1980. In totale sono quasi 562 mila le persone che non timbrano più il cartellino da almeno 40 anni. Di queste, oltre 386 mila sono costituite in massima parte da invalidi o ex dipendenti delle grandi aziende. Se i primi hanno beneficiato di una legislazione che definiva i requisiti in misura molto permissiva, i secondi, a seguito della ristrutturazione industriale avviata nella seconda meta’ degli anni ’70, hanno usufruito di trattamenti in uscita dal mercato del lavoro molto generosi. Dopodiché, contiamo altri 104 mila ex lavoratori autonomi, oltre la metà proveniente dall’agricoltura, e solo una piccola parte, pari al 10,6 per cento del totale che corrisponde a poco meno di 60 mila unità, è formata, invece, da ex dipendenti pubblici. Ricordo che molti di questi impiegati hanno potuto lasciare definitivamente la scrivania dell’ufficio in età giovanissima, grazie alla legge approvata nel 1973 dal governo allora presieduto da Mariano Rumor“.

Sebbene queste 562 mila persone si siano ritirate dal mercato del lavoro prima della fine del 1980, gli effetti economici di queste decisioni politiche – fa notare la Cgia – si fanno sentire ancora adesso. Tra i pensionati baby – mostra l’indagine – sono i dipendenti pubblici ad aver lasciato il posto di lavoro in età più giovane (41,9 anni), mentre nella gestione privata l’età media della decorrenza della pensione à scattata dopo (42,7 anni). In entrambi i casi, comunque, l’abbandono definitivo del posto di lavoro è avvenuto praticamente con 20 anni di età in meno rispetto a chi, oggi, usufruisce di quota 100. Attualmente, le persone che sono andate in quiescenza prima del 31 dicembre 1980 hanno un’età media di 87,6 anni.
Se il confronto invece è fatto tra maschi e femmine, si registra che quest’ultime sono in netta maggioranza. Tra i 562 mila pensionati baby presenti in Italia, ben 446 mila sono donne (pari al 79,4 per cento del totale) e “solo” 115.840 sono uomini (20,6 per cento del totale). In termini di età anagrafica, però, a lasciare prima il lavoro è stato il sesso forte con una media di 40,6 anni, contro i 43,2 anni delle donne. Infine, sia per i maschi sia per le femmine l’età media in cui hanno percepito il primo assegno pensionistico è stata più bassa tra gli occupati nel pubblico che nel privato: mediamente di 6 mesi in entrambi i casi.

Nonostante il fatto che siano una piccola minoranza rispetto al numero totale presente l’1 gennaio 2020, quando si parla di pensionati baby il ricordo va agli ex dipendenti del pubblico impiego che hanno potuto beneficiare di norme estremamente favorevoli per andare in pensione anticipatamente. La possibilità ebbe inizio a partire dal 1973 fino ai primi anni ’90, quando la riforma Amato del 1992 e la successiva riforma Dini del 1996 posero fine a questo privilegio”.

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